SENATO DELLA REPUBBLICA CAMERA DEI DEPUTATI
XIII LEGISLATURA
COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA
SUL DISSESTO DELLA FEDERAZIONE ITALIANA
DEI CONSORZI AGRARI
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RESOCONTO STENOGRAFICO
DELLA
SEDUTA DI MARTEDI’ 20 APRILE 1999
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Presidenza del presidente Melchiorre CIRAMI
I lavori hanno inizio alle 9,10.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Presidenza del presidente CIRAMI
Comunicazioni del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che il Presidente della Camera dei deputati, in data 19 aprile 1999, ha chiamato a far parte della Commissione i deputati Paolo Rubino e Fortunato Aloi in sostituzione, rispettivamente, del deputato Carmine Nardone e del deputato Adriana Poli Bortone, entrambi decaduti dal mandato parlamentare. Anche a nome della Commissione, formulo all’onorevole Rubino e all’onorevole Aloi i migliori auguri di buon lavoro.
Vi informo che l’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, ha convenuto, raccogliendo le sollecitazioni provenienti dal primo e dal secondo gruppo di lavoro, sul seguente calendario di audizioni: professor Pellegrino Capaldo, martedì 20 aprile, ore 9; dottor Cesare Geronzi, martedì 20 aprile, ore 18,30; dottor Salvatore Vecchione, Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma, giovedì 22 aprile, ore 11,30.
Il dottor Geronzi, da me contattato, ha tuttavia comunicato di non poter essere presente all’audizione fissata per oggi pomeriggio, a causa di concomitanti impegni di lavoro all’estero. Ha tuttavia dato la sua disponibilità per martedì prossimo: se non vi sono osservazioni, l’audizione del dottor Geronzi è pertanto fissata per martedì 27 aprile, alle ore 9,30.
Rendo ora alcune brevi comunicazioni in ordine alle collaborazioni. La competente commissione del Consiglio superiore della magistratura dovrebbe esprimersi in questi giorni sulla richiesta di distacco del dottor Rosario Basile, da noi designato come collaboratore a tempo pieno, nonché sulle richieste di autorizzazione per collaborazioni a tempo parziale del dottor Domenico Parisi e del dottor Edoardo Monti.
Poiché il Comando generale della Guardia di finanza non ha ancora risposto alla nostra richiesta di distacco di due ufficiali e di un sottufficiale, ho sollecitato, con lettera in data odierna, l’assegnazione di queste persone, segnalando che la Commissione ha necessità assoluta di avvalersi della loro collaborazione, per il miglior svolgimento dell’inchiesta parlamentare.
Al fine di stabilire un primo contatto in vista di una proficua collaborazione, ho ritenuto opportuno convocare il professor Criscuolo e il professor Paolucci, che la Commissione ha designato come consulenti: se non vi sono osservazioni, essi sono autorizzati, ai sensi dell’articolo 24, comma 5, del nostro Regolamento, ad assistere alle sedute della Commissione.
Vi informo, infine, che la Procura della Repubblica di Perugia, in data 14 aprile, ha trasmesso copia dell’intero fascicolo processuale, nel quale risulta, oltre ai documenti indicati nelle schede allegate alla richiesta di rinvio a giudizio, anche la trascrizione di alcune intercettazioni ambientali effettuate presso la S.G.R.: copie di tutti gli atti potranno essere richieste alla Segreteria della Commissione, mentre la documentazione (interrogatori, note difensive) riguardante la posizione processuale del professor Capaldo è già a disposizione dei commissari sul banco della Presidenza.
Audizione del professor Pellegrino Capaldo
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del professor Pellegrino Capaldo che ringrazio per aver accolto, con cortese disponibilità, il nostro invito.
Prima di dare la parola al professor Capaldo, avverto che i nostri lavori si svolgono in forma pubblica, secondo quanto dispone l’articolo 7 della legge istitutiva, e che è dunque attivato, ai sensi dell’articolo 12, comma 2 del nostro Regolamento interno, l’impianto audiovisivo a circuito chiuso.
Qualora da parte del professor Capaldo o di colleghi lo si ritenga opportuno in relazione ad argomenti che si vogliono mantenere riservati, disattiverò l’impianto audiovisivo per il tempo necessario.
Ricordo che l’audizione si svolge, ai sensi dell’articolo 15, comma 3, del Regolamento interno in forma libera e che il professor Capaldo ha comunicato che non intende avvalersi della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia.
Preciso infine che dell’audizione odierna è redatto il resoconto stenografico che sarà sottoposto, ai sensi dell’articolo 12, comma 6 del Regolamento interno, alla persona ascoltata e ai colleghi che interverranno, perché provvedano a sottoscriverlo, apportandovi le correzioni di forma che riterranno, in vista della pubblicazione negli Atti parlamentari.
MANCUSO. Signor Presidente, mi dispiace porre un problema che non è personale: per la seduta di martedì 27 aprile è previsto il rinnovo dell’Ufficio di presidenza della Commissione antimafia, adempimento molto rilevante e al quale non posso sottrarmi, così come non posso mancare a quello fissato da questa Commissione. Pertanto vorrei pregarla di considerare questa situazione ai fini di differire di qualche ora l’audizione del dottor Geronzi.
PRESIDENTE. Onorevole Mancuso, mi rendo conto di ciò che sottolinea, ma credo che altri membri di questa Commissione facciano parte anche della Commissione antimafia; comunque, ad oggi, la convocazione non è stata ancora stabilita.
MANCUSO. Ho avuto una conferma informale circa questa coincidenza e, se lei ne volesse tener conto, gliene sarei grato.
PRESIDENTE. Cercheremo di conciliare i due impegni.
Do ora la parola al professor Pellegrino Capaldo.
CAPALDO. Signor Presidente, signori della Commissione, ringrazio molto per aver accettato la mia richiesta di essere ascoltato sui temi della Federconsorzi, di mia conoscenza. Credo di dover fare una panoramica piuttosto ampia della mia partecipazione diretta o indiretta a questa vicenda e, a tal proposito, chiedo al Presidente quanto tempo ho a disposizione.
PRESIDENTE. Ha tutto il tempo che ritiene opportuno e, se ce ne sarà bisogno, verrà convocata un’altra seduta.
CAPALDO. Signor Presidente, desidero depositare alcuni documenti agli atti della Commissione.
PRESIDENTE. Professor Capaldo, la ringraziamo e provvederemo senz’altro a distribuirli ai commissari.
CAPALDO. Signor Presidente, intenderei dividere il mio intervento in tre parti. La prima riguarda la mia conoscenza della vicenda che interessò la Federconsorzi prima della fase del commissariamento; la seconda è relativa alla costituzione della S.G.R.; infine, la terza parte è inerente alle imputazioni formulate dalla Procura della Repubblica di Perugia nella richiesta di rinvio a giudizio.
Desidero aprire il mio intervento facendo riferimento proprio all’inizio di questa vicenda, ossia quando, nel 1988, l’onorevole Lobianco chiese di incontrarmi per avere il mio parere sull’andamento della Federconsorzi. Debbo dire che, a quell’epoca, conoscevo questa istituzione solo di nome e quindi chiesi ed ottenni una documentazione proprio al fine di approfondire la situazione. Dopo aver esaminato i dati di cui ero venuto in possesso, riferii in breve tempo all’onorevole Lobianco l’opinione alla quale ero addivenuto e cioè che, a mio avviso, la Federconsorzi necessitava di forti interventi di ristrutturazione, tenuto presente che ormai la formula sulla quale si basava non era più efficiente e consona ai tempi. Pertanto, suggerii di operare una drastica ristrutturazione della rete federconsortile e di effettuare una riduzione degli investimenti, al fine di rimborsare i cospicui debiti accumulati dalla Federconsorzi – che a quell’epoca si ritenevano molto più consistenti di quanto non si sia poi verificato – che avevano una forte incidenza sul conto economico di questa struttura.
L’onorevole Lobianco, ringraziandomi per i miei suggerimenti, mi chiese di incontrare il direttore generale della Federconsorzi e altri soggetti che in qualche modo partecipavano al processo decisionale di questa istituzione - in particolare appartenenti alla Confagricoltura - cosa che avvenne in più occasioni, durante le quali ebbi molti scambi di idee con queste persone, alle quali rappresentai ciò che, a mio avviso, si sarebbe dovuto operare per sanare la situazione.
Inoltre, al momento della nomina del nuovo direttore generale della Federconsorzi, mi fu richiesto di incontrare il dottor Pellizzoni, designato a questo incarico, sul quale avrei dovuto esprimere una mia valutazione professionale e del quale, debbo dire, ebbi un’ottima impressione, considerate anche le sue vaste esperienze internazionali. Il dottor Pellizzoni fu quindi nominato direttore generale, si mise rapidamente al lavoro e ricordo che mi chiese di collaborare alla elaborazione di un piano di ristrutturazione della Federconsorzi. Da parte mia gli risposi che non ero disponibile ad assumere incarichi professionali, ma che comunque, in qualsiasi momento lo avesse ritenuto opportuno, sarei stato pronto ad avere uno scambio di opinioni con lui su questa vicenda; cosa che accadde più volte, tanto è vero che, mentre il dottor Pellizzoni - avvalendosi della collaborazione di alcuni consulenti - procedeva nella messa a punto del piano di riorganizzazione della Federconsorzi, ebbe modo di confrontarsi più volte con me riguardo ad alcuni specifici aspetti. Tale piano fu poi portato a termine, anche se, per una serie di vicende che si susseguirono, in realtà esso si rivelò non più necessario.
Nel frattempo - mi riferisco alla metà del 1990 - i miei rapporti con la Federconsorzi si erano andati diradando, considerato che da parte mia avevo già fornito il mio parere sulla situazione e per di più non ero legato a questa struttura da un rapporto di tipo professionale; inoltre, va sottolineato che il direttore generale in carica si mostrava particolarmente attivo.
Intorno all’aprile 1991, il ministro dell’agricoltura Goria, appena insediato, mi invitò ad esprimere un parere sulla situazione della Federconsorzi che, come egli stesso mi manifestò nel corso di quell’incontro, lo preoccupava molto, tanto da indurlo a ritenerne necessario il suo commissariamento. In quella occasione affermai che, per la conoscenza che avevo della Federconsorzi, sentivo di suggerire al Ministro di non procedere puramente e semplicemente al commissariamento. Anzi, dal momento che l’onorevole Goria era stato per molti anni Ministro del tesoro gli dissi che commissariare una istituzione come la Federconsorzi non era la stessa cosa che commissariare una banca dopo che la Banca d’Italia aveva trovato una soluzione. Quello che in sostanza intendevo sottolineare era il rischio che si poteva correre commissariando la Federconsorzi senza essere in possesso di un piano o di un programma preciso. Inoltre, rispetto alle ripetute manifestazioni di preoccupazione del ministro Goria, gli consigliai di predisporre una ispezione al fine di conoscere meglio la situazione, considerato anche che lo stesso statuto della Federconsorzi attribuiva espressamente questa facoltà al Ministro dell’agricoltura.
Nel congedarmi, il ministro Goria, mi comunicò che, una volta trascorse le festività pasquali, mi avrebbe informato sugli ulteriori sviluppi della situazione.
In realtà, nel merito, non ebbi più notizie e nel maggio appresi che la Federconsorzi era stata commissariata.
A quel punto non ebbi più motivo di occuparmi della questione, anche se mi capitava di seguire - per di più senza un particolare interesse - l’evolversi della situazione attraverso le notizie riportate dalla stampa.
So che il ministro Goria, avvalendosi della collaborazione dell’ABI, effettuò diversi tentativi per trovare una soluzione del problema, tuttavia, mi risulta che, nel corso dell’estate 1991, non furono prese iniziative di particolare rilievo. C’è da dire, però, che la situazione era in particolare fibrillazione, basti pensare che i lavoratori della Federconsorzi ne avevano occupato la sede, i piccoli creditori erano in uno stato di particolare tensione ed anche i creditori maggiori manifestavano la loro preoccupazione in quanto appariva evidente che un’operazione di risanamento, per una struttura di quelle dimensioni, difficilmente avrebbe potuto essere attivata e regolata attraverso le normali procedure concorsuali.
Faccio questa affermazione perché, nel frattempo, si aveva notizia, ad esempio, di professionisti che emettevano parcelle per decine di miliardi e quindi si aveva proprio la sensazione che la situazione fosse al di fuori di ogni controllo.
Ripeto, c’era una preoccupazione diffusa da parte di tutti, lavoratori, creditori piccoli e grandi. In questo quadro, maturò in me l’idea di studiare una qualche iniziativa in grado di rimuovere, almeno in parte, queste condizioni di generale insoddisfazione. Naturalmente, nell’elaborare un progetto non potei far altro che partire dalla constatazione che la Federconsorzi nel frattempo era stata ammessa alla procedura di concordato preventivo; gli spazi per esercitare la fantasia erano pertanto piuttosto limitati. In quelle condizioni, la sola cosa da fare era prevedere un meccanismo che consentisse di procedere allo smobilizzo dei cespiti in maniera rapida ed efficace. Eravamo di fronte ad una situazione di ammissione al concordato preventivo e tutto il problema si risolveva nel vendere i beni al meglio, ossia in tempi rapidi e in modo efficiente.
Prospettai una soluzione di questo tipo: costituire una società capace di rilevare in blocco i beni dalla Federconsorzi, per poi procedere ad una loro liquidazione nel modo più razionale e trasparente possibile. Nell’immaginarla ritenni che dovesse trattarsi di una società alla quale partecipassero tutti i creditori della Federconsorzi in proporzione ai rispettivi crediti, per non alterare i rapporti tra i diversi creditori; una società che, costituita soltanto dai creditori e in rapporto ai rispettivi crediti, acquistasse i beni, li pagasse un prezzo ritenuto congruo e quindi procedesse rapidamente alla loro alienazione.
Era questa l’idea guida dell’operazione. Nel frattempo pensai anche che, impostando una procedura per lo smobilizzo dei cespiti molto più rapida ed efficiente, vi potessero essere degli spazi per considerare le esigenze dei lavoratori e dei piccolissimi creditori. In sostanza ritenni che i vantaggi che detta iniziativa avrebbe consentito di realizzare in termini di efficienza avrebbero potuto essere distribuiti tra i piccoli creditori e i lavoratori. In quest’ottica, il progetto prevedeva che la società acquirente avrebbe acquistato anche i crediti inferiori a 20 milioni pagandoli il cento per cento del loro importo. Non solo, detta società avrebbe messo a disposizione della Federconsorzi anche l’importo di 20 miliardi che avrebbe potuto consentire un’incentivazione all’esodo di circa 200 persone in ragione di 100 milioni ciascuna. Ed effettivamente poi le cose andarono proprio così.
A grandi linee questo era il disegno: una società alla quale potevano partecipare tutti e solo i creditori della Fedit in proporzione ai rispettivi crediti, quindi una società non aperta ad altri soggetti e che non consentiva ad un creditore di partecipare in una misura proporzionalmente superiore al proprio credito. Esposi la mia idea ai rappresentanti di alcuni grandi creditori - i piccoli creditori avevano tutto da guadagnare da una tale situazione e quindi non era necessario che mi rivolgessi a loro - e, una volta ottenuto l’assenso, decidemmo insieme di incaricare della questione un esperto di questioni fallimentari e di procedure concorsuali in genere. Ci rivolgemmo ad un professionista milanese, l’avvocato Mario Casella, che seguì poi tutta la pratica. Io stesso suggerii di rivolgerci ad un professionista milanese dal momento che i maggiori professionisti romani, per una ragione o per un’altra, erano già impegnati nella vicenda Federconsorzi, e anche perché ritenevo più agevole, per quanto concerneva i contatti, avvalerci di un professionista milanese trovandosi al Nord le maggiori banche creditrici.
L’avvocato Casella si mise subito al lavoro. I primi contatti con lui risalgono al gennaio 1992. Dopo un certo numero di riunioni con diversi creditori, alla fine di maggio, quindi dopo circa quattro mesi, fu elaborata l’ipotesi e fu avanzata la relativa proposta. L’avvocato Casella la presentò quindi agli organi della procedura di concordato. La proposta era articolata nel seguente modo. Si prevedeva l’acquisizione in blocco dei beni della Federconsorzi, elencati in una sorta di inventario predisposto dal commissario giudiziale per l’ammissione al concordato preventivo. E’ opportuno sottolineare che noi facemmo riferimento all’elenco dei beni contenuti nella relazione del commissario per la richiesta del concordato, beni che nel frattempo potevano essere stati in parte venduti. Quindi la cifra da noi offerta - che vi dirò poi qual è e come è stata determinata - riguardava il rilievo in blocco dei cespiti risultanti da un elenco riferito al 30 novembre 1991. Questa cifra sarebbe stata poi suscettibile di conguagli se, all’atto dell’operazione, i beni fossero stati, anche in parte, venduti; quindi, un prezzo riferito ad una certa quantità di beni, a loro volta riferiti ad una data certa.
Il prezzo fu determinato in lire 2.150 miliardi, pagabili per il 15 per cento immediatamente, ossia entro dieci giorni dal trasferimento dei beni, per il 42,5 per cento, pari a poco più di 900 miliardi, entro 12 mesi, per l’altro 42,5 per cento, sempre pari a poco più di 900 miliardi, entro 18 mesi. E’ evidente che il prezzo è stato frutto di un’ampia negoziazione all’interno del comitato dei promotori. Furono prese in considerazione varie combinazioni prezzo-modalità di pagamento che andavano dall’ipotesi di un prezzo intorno ai 2.000 miliardi con pagamento immediato, fino a quella di un prezzo di 2.300-2.350 miliardi con un pagamento diluito in 3-4 anni. Alla fine si optò per la soluzione anzidetta: un prezzo di 2.150 miliardi di lire con una breve dilazione nel pagamento. Si ritenne preferibile la modalità di pagamento sopra descritta, intanto perché consentiva di pagare la cifra attuale, e poi anche in considerazione del fatto che il liquidatore non sarebbe stato in grado di distribuire immediatamente il ricavo della vendita, occorrendo del tempo per effettuare i riparti. La dilazione, insomma, finiva per armonizzarsi anche con le esigenze del liquidatore. Quindi - ripeto - fu stabilito il prezzo di 2.150 miliardi di lire con le modalità di pagamento che vi ho descritto.
Ora occorre raffrontare questo prezzo con alcune stime che circolavano all’epoca. Ho qui una stima dei periti nominati dal tribunale subito dopo il commissariamento della Federconsorzi, in base alla quale il valore dei beni ammontava a 4.800 miliardi. Una seconda stima, effettuata dal commissario giudiziale, valutava il patrimonio Fedit in 3.939 miliardi. Infine vi erano altre due stime elaborate dai commissari governativi, una che superava di poco i 4.000 miliardi, l’altra che si fermava a 3.600-3.650 miliardi.
Comunque, le stime che più rilevano ai nostri fini sono due: quella effettuata dai periti nominati dal tribunale, pari a 4.800 miliardi, e quella contenuta nella richiesta di concordato preventivo, fatta dal commissario giudiziale, pari a 3.939 miliardi. E’ chiaro che la nostra offerta di 2.150 miliardi partiva da quest’ultima stima.
Ad un rapido esame appariva evidentissima l’inattendibilità tecnica di quelle stime. Mi soffermerò brevemente sulla prima di 4.800 miliardi giacchè la seconda, di 3.939 miliardi, è in realtà una derivazione quasi meccanica della prima con alcuni abbattimenti.
La prima stima conteneva vistosissimi errori di carattere tecnico poiché non era stata fatta come deve essere una stima in questo contesto, in funzione e sulla base della prospettazione dei valori di realizzo e dei valori di recupero, tenuto conto della concreta vendibilità, della concreta possibilità di trasformare la stima in denaro, ma era stata fatta secondo quella che tecnicamente si definisce la "logica di funzionamento" di un’impresa, tant’è che vi sono delle valutazioni di cespiti che si spingono fino alla lira, ad esempio un cespite dell’ordine di centinaia di miliardi viene valutato 282.696.616.662. E’ evidente che, per una stima fatta agli effetti della liquidazione, non ha senso procedere in tal modo. Essa deve puntare a rappresentare quella che potrà essere la vendibilità, l’accoglimento del bene da parte del mercato ed il prezzo che quest’ultimo è disposto a pagare per esso.
Vi era quindi questo vizio di fondo che pesa enormemente. Infatti chi ha un po’ di esperienza in questa materia sa che tra valori di funzionamento e valori di liquidazione vi sono differenze enormi.
Devo dire, comunque, che sotto certi aspetti i valutatori furono anche un po’ sfortunati. Essi valutarono questi beni, in particolare gli immobili, nell’ottobre-novembre 1991. Molti di voi ricorderanno che in quel periodo si registrò un vero e proprio boom dei valori immobiliari; si era perso il controllo dei prezzi. Costoro, facendo una valutazione in quella fase, probabilmente non hanno afferrato, come ragionevolmente si sarebbe potuto fare, che si trattava di una situazione meramente congiunturale e che quei prezzi erano destinati a flettere. Ed infatti quando noi abbiamo fatto l’offerta, alcuni mesi dopo, il mercato in qualche modo aveva già virato e già allora si profilava una crisi nel settore immobiliare di gravissime proporzioni e dimensioni.
In parte la sopravvalutazione che noi abbiamo riscontrato nella stima di 4.800 miliardi deriva proprio da questa circostanza, dal fatto che la valutazione è stata fatta in un momento di prezzi esorbitanti, abnormi, laddove di lì a qualche mese la situazione è mutata. Vi sono poi gli errori di metodo di cui parlavo prima. Tuttavia là dove gli errori nelle stime sono stati maggiori - ed i fatti lo hanno dimostrato - è in materia di crediti. I periti nominati dal tribunale hanno preso in blocco questi crediti, migliaia di miliardi, ed hanno pensato di applicare una certa prudenza nella loro valutazione operando un abbattimento generico del valore di questi crediti (dell’ 8, del 10, del 15 per cento).
E questo è un altro errore grave. Infatti la maggior parte di tali crediti era nei confronti dei Consorzi agrari provinciali, che a loro volta, erano per buona parte in crisi (alcuni erano già commissariati, altri erano in liquidazione coatta, altri lo sarebbero stati di lì a poco). In ogni caso, se vi sono crediti di importi cospicui nei confronti di un numero relativamente limitato di realtà produttive è chiaro che l’applicazione di un metodo statistico non funziona più. Posso abbattere del 10 per cento il valore dei crediti se ho dei crediti estremamente frazionati. Se ho crediti di piccolissimo importo verso un grandissimo numero di soggetti posso anche applicare il metodo statistico, ma rispetto a crediti omogenei e di importo relativamente cospicuo, quali quelli di cui parliamo, è chiaro che non ha senso una valutazione su basi statistiche. In quel caso bisognava prendere in esame, uno per uno, 50, 60, 70 consorzi ed analizzarne la solvibilità. Si sarebbe visto che la loro solvibilità era assai limitata; quando un consorzio è in liquidazione coatta amministrativa, quando è commissariato, l’esperienza ci dice che c’è ben poco da recuperare. Questa è una prima valutazione.
Ve ne è poi una seconda. Il commissario giudiziale, con una valutazione di 3.939 miliardi contro i 4.800, ha capito che quei valori erano esagerati. Tuttavia si è limitato genericamente ad operare un abbattimento; non ha percepito, a mio parere, l’errore metodologico che era alla radice. Ha capito che si trattava di valori abbastanza generosi, per non dire incongrui, ed ha operato qua e là degli abbattimenti riducendo le cifre di circa un 15 per cento.
Per fare un esempio dell’ inaccoglibilità di questo metodo citerò un caso che, se volete, potrete anche approfondire. Un immobile con una superficie netta di 6.000 metri quadri, in quel momento a fitto bloccato per 9 anni, viene valutato 200 miliardi. E’ stato valutato 200 miliardi un immobile affittato a 200 milioni l’anno, cioè l’1 per mille, occupato per 9 anni. Se si opera il normale abbattimento che viene fatto quando gli immobili sono bloccati, che si aggira intorno al 30 per cento, arriviamo ad una valutazione di circa 50 milioni al metro quadro. A Roma, anche nel periodo del boom, nonostante la follia dei prezzi, una tale cifra non si è mai sfiorata, al massimo si sono raggiunti i 18-20 milioni al metro quadro per piccoli appartamenti a piazza di Spagna.
Faccio un altro esempio. Il patrimonio netto di una società in amministrazione controllata, palesemente in crisi (ed infatti è finita male), viene valutato in 60 miliardi. Successivamente, il valore di questa azienda ha raggiunto lo zero, ma che il suo valore fosse tale si capiva sin da allora; il solo fatto che fosse in amministrazione controllata lasciava intendere che quei valori non potevano essere accettati.
Quindi siamo partiti da una cifra di 3.939 miliardi, che concettualmente conferma in un certo senso la stima precedente, abbattendo i valori, ma non a sufficienza. Il commissario giudiziale non percepisce la problematica dei crediti, opera un abbattimento ulteriore, ma non si rende conto che crediti per migliaia di miliardi distribuiti tra 40-50 soggetti non possono essere valutati statisticamente, ma deve essere valutata puntualmente la solvibilità di ciascun soggetto.
A nostro parere, e mi riferisco ai tecnici di varie banche e di altri creditori che parteciparono alla società, appariva chiaro come questi valori dovessero essere ulteriormente e mediamente abbattuti di un altro 25 per cento; al massimo si poteva attribuire a questo compendio di beni un valore di 3.000 miliardi. Ora dalla cifra di 3.000 miliardi, che resta pur sempre una stima, anche se dal nostro punto di vista più corretta, occorreva passare ad un prezzo. Il passaggio dalla stima al prezzo richiede due fasi: in primo luogo, l’attualizzazione in termini puramente finanziari perché il prezzo veniva pagato in tempi brevi, mentre lo smobilizzo di questi beni veniva programmato in un arco di 6-7 anni, tant’è che oggi a distanza di 6 anni l’operazione non è ancora conclusa, anche se il più è stato fatto. Esisteva quindi un problema di attualizzazione: si pagava quasi subito e si sarebbe incassato a distanza di 4 o 5 anni. Un’attualizzazione nella misura di due anni, considerato il costo del denaro dell’epoca, che non è quello di oggi, con un tasso intorno al 12-13 per cento, significava portare i 3.000 miliardi a 2.400.
C’erano poi i costi dello smobilizzo perché, bene o male, bisognava mantenere in piedi una struttura per poter vendere questi beni, e quindi arriviamo a quella cifra di 2.150 miliardi, che parte proprio dall’assunto che l’operazione non dovesse avere finalità speculative. La finalità di questa società era chiarissima: essa mirava a vendere nel modo migliore questi beni. L’intento non era quello di realizzare un guadagno dalla vendita dei beni, ma solo di creare le condizioni, nell’interesse di tutti, per poterli vendere nel modo più efficiente possibile. La società non voleva guadagnare ed infatti non ha guadagnato e non guadagnerà. Ecco come nasce il prezzo di 2.150 miliardi. Tra l’altro, in realtà, il prezzo non è stato di 2.150 miliardi, ma leggermente superiore. La società, come ricordavo poc’anzi, ha comprato i crediti inferiori a 20 milioni pagandoli il 100 per cento del loro importo, ha offerto facilitazioni ai titolari di crediti inferiori ad un miliardo ed ha speso circa 20 miliardi per consentire l’esodo di 200 dipendenti con un contributo medio di 100 milioni a testa. Grosso modo, quindi, il costo dell’operazione è stato intorno ai 2.200-2220 miliardi pagabili nel modo che ho detto. Questa era la struttura dell’operazione.
La proposta venne formulata nel maggio 1992 e venne accettata dieci mesi più tardi dagli organi della procedura, nel marzo 1993; in questi dieci mesi tale operazione fu oggetto di discussione a tutti i livelli, dalla stampa, ai sindacati, al mondo politico. E’ una operazione che andò allora sotto la denominazione di "piano Capaldo", anche se in realtà non era questo gran piano perché si trattava soltanto di vendere dei beni. Comunque allora si parlò di "piano Capaldo", ma quello che qui mi preme sottolineare è che l’operazione fu ampiamente pubblicizzata e discussa, quindi se ci fosse stato qualche gruppo interessato o che riteneva il prezzo particolarmente basso avrebbe potuto avanzare proposte alternative, cosa che non è mai accaduta.
Quindi, la nostra proposta rimase all’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica per dieci mesi e venne accettata nel marzo 1993. Nell’aprile dello stesso anno venne costituita la società S.G.R. così come indicato nella proposta, la quale prevedeva che, qualora la stessa fosse stata accettata, sarebbe stata costituita una società con queste caratteristiche. Quindi la società venne costituita successivamente.
Vorrei anche richiamare l’attenzione sul fatto che, quando il prezzo venne fissato nel 1992, non si sapeva ancora quali sarebbero stati i suoi soci in quanto la società era aperta a tutti e, di conseguenza, tutti potevano intervenire. Inoltre i promotori, dopo la costituzione della società nell’aprile 1993, stabilirono che chi lo avesse voluto avrebbe potuto entrare nella società nell’anno successivo, alle loro stesse condizioni. Ne deriva quindi che tutti i creditori avrebbero potuto entrare nella società non solo fino al momento della costituzione della stessa (hanno avuto dieci mesi di tempo), ma anche nei dodici mesi successivi, alle stesse condizioni dei soci fondatori. Sottolineo questo aspetto per dire che non c’era alcun intento discriminatorio.
La società venne costituita nell’aprile 1993 ed il passaggio dei beni venne perfezionato nell’agosto 1993. Venne redatto un atto quadro tra Federconsorzi in concordato preventivo e S.G.R.; la meccanica dell’operazione era all’incirca questa: il contratto prevedeva il passaggio alla S.G.R. di tutti i beni iscritti nel famoso inventario del 1991; si sarebbe dovuto fare un conguaglio per vedere tutto ciò che era stato venduto ed incassato dalla data di riferimento del 30 novembre 1991 all’agosto 1993; tutto ciò che, nel frattempo, era stato smobilizzato, con il netto ricavo, doveva essere decurtato dal prezzo. Inoltre, fu stabilito che non passassero materialmente tutti i beni alla S.G.R. per una ragione di carattere fiscale, onde evitare il doppio passaggio di proprietà. Dal momento che la S.G.R. doveva vendere questi beni non c’era bisogno che questi venissero trasferiti immediatamente alla S.G.R. che, a sua volta, avrebbe dovuto trasferirli dopo qualche mese con il raddoppio dei costi di trasferimento. Si decise quindi che i beni sarebbero rimasti alla Federconsorzi e che, quando la S.G.R. avesse trovato il compratore, sarebbe stata la stessa Federconsorzi a girare a lui i beni. L’importo sarebbe stato depositato su un conto corrente destinato anche al pagamento delle rate successive. Quindi c’era anche un elemento di garanzia.
La struttura dell’operazione era semplicissima: si fa un atto quadro che prevede che il titolare di tutti i beni diventi la S.G.R. e che il trasferimento non avvenga immediatamente, ma che possa essere fatto dopo qualche tempo e, che, comunque, mano a mano che la S.G.R. individua compratori per questi beni, sarà la stessa Federconsorzi a girarli per conto della S.G.R..
Una volta costituita la società fu nostra cura, ancora prima di vendere uno spillo, stabilire delle procedure molto precise. La S.G.R. che era, a tutti gli effetti, una società privata, avrebbe potuto vendere i beni come voleva; noi invece stabilimmo delle procedure rigorose e fortemente competitive.
I beni di proprietà della S.G.R. acquisiti dalla Federconsorzi erano essenzialmente di tre categorie: crediti, partecipazioni quotate o non quotate ed immobili. Per i crediti c’era poco da stabilire procedure, bisognava solo cercare di incassarli. Le procedure riguardavano, invece, gli immobili e le partecipazioni.
La procedura concernente gli immobili prevedeva che venisse fatta un’inserzione sui giornali nazionali e locali, a seconda dell’importanza del bene e dell’ubicazione dello stesso. In genere, ripeto, c’era un’inserzione su alcuni giornali locali e nazionali. C’era un invito ad offrire, veniva fatto un primo screening delle manifestazioni di interesse e la fase terminale si compiva alla presenza di un notaio che faceva un’asta per la vendita. Tutto è stato venduto così, tranne in alcuni casi (pochi per la verità) in cui non vi è stata manifestazione d’interesse una prima, una seconda e una terza volta, per cui si è ricorsi alla trattativa privata, ma comunque solo dopo aver invano tentato una procedura di questo tipo.
Per quanto riguarda le partecipazioni, si è adottata una procedura tipica delle banche d’affari internazionali basata, anche in questo caso, sulla manifestazione d’interesse, sull’invito ad offrire e su procedure fortemente competitive. A questo proposito, in un caso, si aderì ad un’offerta pubblica di acquisto fatta dall’INA per la compagnia di assicurazioni Fata, che rientrava tra i beni della Federconsorzi.
Le partecipazioni nella Banca di Credito di Ferrara e nella Massalombarda furono vendute, con l’assistenza di Mediobanca, attraverso procedure fortemente competitive.
Il caso della Banca di Credito di Ferrara è interessante: essa fu venduta ad un prezzo altissimo, molto più alto rispetto alle stime già elevate fatte in quella famosa perizia di esperti nominati dal tribunale e fu acquistata dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, che non era neppure socia della S.G.R., ad un prezzo molto elevato.
Faccio presente che sono socie della S.G.R. alcune tra le maggiori banche italiane, alcune delle quali avevano anche interesse a comprare la Banca di Credito di Ferrara ed infatti parteciparono alla "gara". Quando però questa prese la piega che ho ricordato poc’anzi, nel senso che il prezzo cominciò ad aumentare molto, queste banche si ritirarono e la Banca di Credito di Ferrara fu acquistata da un soggetto non socio della S.G.R..
Ho presieduto la S.G.R., su richiesta dei soci, esattamente dalla sua costituzione fino al dicembre 1994; a questa data sono stato sostituito da un consigliere di amministrazione, il professor Carbonetti, che conosceva molto bene la vicenda. Desidero altresì aggiungere che quelli, fin qui illustrati, sono fatti di cui sono certo, proprio perché li ho vissuti in prima persona.
Questa, come ho già detto, era la struttura dell’operazione che, per lo meno per quanto riguarda la prima parte della gestione, è proceduta bene e senza grossi intralci.
Successivamente (dal dicembre 1994) non mi sono più occupato della questione e debbo confessare - consentitemi una notazione personale - che a quell’epoca ero sicuro di aver contribuito ad attuare qualcosa di utile anche per i creditori, tenuto conto che, a seguito dell’attivazione di questa procedura, lo smobilizzo dei beni procedeva in modo ordinato senza intralci né polemiche.
Torno a ribadire che ritenevo di aver compiuto un buon lavoro e, invece, dopo circa un anno e mezzo (precisamente nel marzo 1996), ricevetti una comunicazione giudiziaria da parte della Procura di Perugia in cui si ipotizzava – mi parve di capire - un’accusa di dissipazione di beni.
Confesso che, in un primo momento, di là dal disagio che provavo nel leggere i titoli dei giornali che mi riguardavano o nell’andare a svolgere le mie lezioni all’Università - tanto più che una parte del mio corso riguardava proprio l’etica degli affari - non presi questa comunicazione molto sul serio. Infatti, ritenevo che, una volta chiariti ai magistrati alcuni aspetti, le cose si sarebbero risolte e fui convinto di ciò per molto tempo, ma evidentemente i fatti non mi hanno dato ragione.
Dopo tre anni di indagine ed una produzione considerevole di documentazione, volta ad illustrare e a chiarire l’andamento della vicenda (tra l’altro mi risulta che anche la Guardia di finanza, su richiesta della Procura della Repubblica di Perugia abbia svolto indagini a tappeto) e anche se mi colpiva molto che la faccenda si trascinasse così a lungo, continuavo a ritenere che il tutto si sarebbe risolto nel modo che credevo giusto. Invece, all’inizio di quest’anno mi è pervenuto un invito a comparire, ossia il preludio della richiesta di rinvio a giudizio.
Il mio avvocato mi disse che, dal momento che le intenzioni della Procura di Perugia erano ormai più che chiare, non era neppure il caso di presentarsi; io invece ero di un altro parere e ottimisticamente mi recai a Perugia proprio perché continuavo ad essere convinto che, spiegando per l’ennesima volta l’andamento dei fatti, si sarebbe pervenuti ad un chiarimento.
Pertanto, il 13 febbraio scorso fui interrogato a Perugia ed in tale occasione mi venne contestato di avere, insieme ad altri: "distratto e dissipato l’attivo patrimoniale Fedit, valutato prudenzialmente 4.800 miliardi da un collegio peritale nominato dallo stesso tribunale fallimentare di Roma e circa 4.000 miliardi dal commissario giudiziale, promuovendone e consentendone la vendita al prezzo apparente di 2.150 miliardi….. senza alcun apparente supporto di carattere tecnico e senza alcuna motivazione sostanziale, così intenzionalmente procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale di rilevante gravità, quantificabile in circa 3000 miliardi ai creditori soci di S.G.R e un correlativo ingiusto danno di rilevante gravità agli altri creditori e a Fedit".
Si trattava di una accusa del tutto infondata, oltretutto i conti sono macroscopicamente sbagliati; infatti, la S.G.R. non ha neppure incassato 3000 miliardi da queste vendite, ma molto meno, dopo aver ovviamente pagato un prezzo. Come si fa quindi ad affermare che esiste un ingiusto vantaggio di 3000 miliardi!
A Perugia, comunque, durante l’interrogatorio, il magistrato ribadì queste sue posizioni alle quali replicai con argomenti tecnici. Dopo un colloquio prolungatosi per 3-4 ore mi resi conto che, nonostante le mie repliche molto puntuali e basate - ripeto - su argomenti tecnici, il mio interlocutore continuava di fatto a ripetere le stesse accuse, sicché a un certo punto gettai la spugna e, comprendendo che non c’era più niente da fare, chiesi di poter rilasciare una dichiarazione di cui desidero leggervi alcuni passaggi proprio per meglio comprendere quanto vi dirò successivamente: "Apprendo che, dopo tre anni di indagini, lei mi considera autore di un disegno criminale. Ritengo ingiusta, ritengo sbagliata questa sua conclusione, ma non mi resta che accettare. Non posso fare altro. E’ un suo diritto: ma credo che questo suo diritto sia temperato anche dal dovere di motivare l’accusa, di dimostrare non dico la fondatezza, ma almeno la plausibilità. Invece le argomentazioni che leggo nell’invito a comparire vanno nel senso esattamente contrario: dimostrano l’assoluta mancanza di plausibilità dell’accusa.
Vi si leggono affermazioni palesemente abnormi (come quella secondo la quale l’operazione S.G.R. avrebbe determinato un danno di particolare gravità alla Fedit), palesemente non rispondenti al vero (come quella di aver distratto o dissipato il patrimonio Fedit o di aver procurato un ingiusto vantaggio quantificabile in circa 3000 miliardi ai creditori soci di S.G.R. e un correlativo ingiusto danno agli altri); piuttosto "strane" (come quella secondo la quale la vendita S.G.R. sarebbe stata fatta senza apparente supporto tecnico). La verità è che i supporti tecnici sono molti e sono stati via via dimostrati con altrettanti documenti.
Leggendo l’invito a comparire, ho avuto la sensazione di trovarmi non di fronte ad un atto di accusa dotato, come dovrebbe essere ogni atto di accusa, di una sua severità e di una sua logica, pur se naturalmente opinabile; ma di trovarmi di fronte ad un vero e proprio sopruso, al sopruso di chi, conscio della sua posizione di forza ritiene di poter imporre la sua "verità" senza curarsi neppure di dare una razionalità alle sue argomentazioni. E’ una sensazione che mi amareggia profondamente come cittadino di uno Stato di diritto, ancor prima che come indagato. So bene che contro questo sopruso mi posso difendere e mi difenderò in tutte le sedi e con tutti i mezzi a mia disposizione, ma l’amarezza resta.
A proposito di stime, mi domando per quale ragione Ella abbia ritenuto di far effettuare, in aggiunta alle tante già eseguite, ulteriori stime di singoli cespiti aziendali e non abbia disposto l’unica perizia che avrebbe potuto essere veramente utile, vale a dire una perizia sulla congruità del prezzo complessivamente pagato da S.G.R. per il rilievo in blocco di tutti i beni. E dunque una perizia che non dovesse discettare in astratto di valutazioni, ma dovesse andare al cuore della questione e cioè alla previsione delle concrete possibilità di ottenere entrate monetarie dalla alienazione dei cespiti. Una tale perizia, affidata a mani esperte, si sarebbe di certo basata ampiamente su dati statistici e in particolare sull’entità del divario che, nelle normali procedure concordatarie, si registra tra le stime dell’attivo fatte in sede di richiesta del concordato e i valori netti effettivamente conseguiti e distribuiti ai creditori. Ne sarebbe derivata la dimostrazione che, nel caso Fedit-S.G.R., questo divario è ben inferiore al normale e che di conseguenza il prezzo pagato da S.G.R. è ben superiore al valore netto che la procedura concordataria, seguendo l’iter normale, avrebbe realisticamente distribuito ai creditori".
A conferma di quanto dichiarato ci sono diversi supporti tecnici e alcune tabelle statistiche. Conosciamo bene le relazioni che statisticamente intercorrono tra i valori di stima del concordato preventivo e ciò che viene effettivamente distribuito, che nel nostro caso corrisponde a circa il 55 per cento del valore lordo attribuito ai beni Fedit dagli organi della procedura di concordato. Tale percentuale viene raggiunta in casi rarissimi e ciò è facilmente dimostrabile attraverso delle indagini statistiche.
Dopo questa mia dichiarazione il sostituto procuratore mi disse che, probabilmente, era necessario approfondire la questione e che, occorrendo, si poteva comunque prevedere un altro incontro. Dopo qualche ulteriore scambio di opinioni l’interrogatorio fu aggiornato alla settimana successiva (il 19 febbraio). Dissi al sostituto procuratore che in quell’occasione avrei presentato, a dimostrazione della mia tesi, ulteriori dati ed elaborati che - a mio parere - avrebbero dovuto chiarire, senza possibilità di equivoco, l’intera vicenda. La mattina del 19 febbraio il sostituto procuratore mi disse che l’interrogatorio sarebbe stato condotto anche dal procuratore. Dapprima mi interrogò il procuratore che, mostrando una cortesia assoluta, mi pose alcune domande per ripercorrere l’intera vicenda, un po’ come sto facendo ora. Desideravo esporre alcune questioni contenute negli elaborati che avevo portato con me, ma - dopo alcune battute - egli mi disse che essi sarebbero stati acquisiti agli atti e che pertanto non era necessario parlarne. Dopo qualche domanda del sostituto, si chiuse l’interrogatorio. Un paio di settimane dopo, mi fu comunicata la richiesta di rinvio a giudizio e quindi presi visione del documento, di cui anche voi siete ora a conoscenza.
Non credo di poter discutere tale documento ora. In realtà, potrei affrontarlo riga per riga e non semplicemente per argomenti, ma non ritengo sia questa la sede adatta. Desidero invece esprimere soltanto uno stato d’animo. Come imputato sono tranquillissimo, come cittadino sono estremamente angosciato. Mi angoscia il fatto che si possano produrre documenti di questo tipo, completamente privi di argomentazioni, dietro ai quali vi sono anni di lavoro di molte persone, costi e danni per la società. In esso si parla della dissipazione di 3000 miliardi di lire, ma leggendo attentamente l’intero fascicolo non si arriva mai a questa somma, qualunque sia l’interpretazione che se ne voglia dare.
Il presidente Cirami mi ha comunicato che i verbali dei miei due ultimi interrogatori sono già stati acquisiti agli atti; io, però, ho qui la documentazione allegata al secondo verbale che chiarisce i fatti avvenuti tra i due interrogatori. Non so se posso entrare nel merito di tale documentazione o se invece devo fermarmi qui.
PRESIDENTE. Professore Capaldo, intanto la ringraziamo per questa sua esposizione sintetica che ci ha dato modo, grazie anche alla conoscenza degli atti che abbiamo a disposizione, di poter formulare dei quesiti.
E’ lontana da noi l’idea di sindacare l’operato della magistratura, tuttavia avendo noi la responsabilità di portare avanti un’inchiesta sull’intera vicenda, non è da escludere che sia necessario vedere in quali manchevolezze può essere incorsa la stessa magistratura.
Le rivolgeremo delle domande, alle quali potrà decidere se rispondere per gruppi o a ciascuna singolarmente.
Innanzi tutto io ne avrei alcune suggeritemi dalla lettura degli atti. La prima, di carattere fondamentale, è la seguente: perché il ministro Goria decise il commissariamento? Nessuno, almeno dalla lettura degli atti, è in grado di dire perché il Ministro scelse così repentinamente di procedere al commissariamento della Fedit e perché si instaurò questa relazione tra il Ministro e la richiesta di concordato preventivo. Stupisce la caparbietà con la quale fu scelta la via del concordato preventivo escludendo altre soluzioni. Questa è la prima perplessità.
Occorre poi considerare taluni rapporti con il mondo bancario, anche in relazione al fatto che il ministro Goria, fino a poco prima, era stato a capo del Dicastero del tesoro. Inoltre, la scelta del concordato preventivo si offriva con l’intento di favorire la cessione in blocco di tutti i beni della Federconsorzi, con una contrarietà assoluta da parte del tribunale fallimentare a prendere in considerazione l’ipotesi di vendita frazionata.
Su questa strada - come lei sa - si sono dimessi diversi commissari governativi, che chiedevano spiegazioni non solo su questo atteggiamento, ma anche sulla congruità del prezzo.
Vorrei capire anche se la grande preoccupazione da lei sottolineata all’inizio di questa audizione, è da intendersi riferita alla sorte della Federconsorzi o a quella dei suoi creditori. Mi spiego: era preoccupato perché la Federconsorzi versava in condizioni di dissesto o perché le banche, private di qualunque garanzia, rischiavano di perdere i loro crediti?
Passando poi ad un terzo ordine di domande, mi chiedo come mai le banche "affidassero" con tanta facilità la Federconsorzi: solo nel momento in cui il ministro Goria decise il commissariamento, le banche cominciarono a preoccuparsi seriamente perché esso faceva saltare il sistema dei crediti. Inoltre, sappiamo che vi furono anche delle ipotesi di patronato.
Passo ora ad una quarta serie di domande. Vorrei sapere se, una volta chiesto il concordato, era ancora possibile l’arbitrato. I soci della Federconsorzi, infatti, non furono mai chiamati a pronunziarsi su una eventuale volontà di superare, attraverso la vendita frazionata, il grave momento di dissesto, e quindi sulla possibilità di scegliere altre forme di liquidazione, rispetto alla liquidazione coatta amministrativa.
Inoltre, vorrei sapere quale ruolo aveva avuto la Banca d’Italia nei suoi rapporti con le altre banche e quale vigilanza aveva esercitato il Ministero dell’agricoltura e delle foreste fino a quel momento. Ritengo, infatti, che non si possa arrivare ad un tale dissesto senza che se ne accorgano organi istituzionali, quali la Banca d’Italia e il Ministero dell’agricoltura.
CAPALDO. Signor Presidente, molte di queste domande non possono avere me come destinatario; dunque posso esprimere soltanto le mie impressioni.
PRESIDENTE. Le do un suggerimento. Ho letto che l’originalità della proposta di una cordata delle banche per la cessione dei beni in blocco era stata di Gianmario Roveraro della Akros, che ne avrebbe parlato con lei su suggerimento dell’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti.
CAPALDO. Non so per quale ragione il ministro Goria decise il commissariamento della Federconsorzi, posso solo dire che io lo sconsigliai. Sul punto, la Procura della Repubblica di Perugia sostiene che fui io a suggerire il commissariamento al ministro Goria perché così ha riferito il dottor Pellizzoni. Quando la cosa mi fu contestata, pensai che Pellizzoni avesse potuto riferire ciò per sbaglio. Ma ora, letta la deposizione di Pellizzoni, posso constatare, non solo che egli non aveva affermato nulla del genere, ma che, al contrario, dal contesto, si evinceva semmai esattamente il contrario e cioè che io ero rimasto, come gli altri, sorpreso per la richiesta di commissariamento che pertanto avevo sconsigliato.
Quindi, leggendo la deposizione di Pellizzoni, che è agli atti, si comprende che è inesatto quanto contenuto nella richiesta di rinvio a giudizio, là dove si dice che io avrei detto a Pellizzoni di aver suggerito al ministro Goria il commissariamento. Io non l’ho suggerito; del resto solo uno stupido poteva suggerire di commissariare la Federconsorzi. Infatti il commissariamento ha un senso quando esiste o comunque già si intravede una soluzione. Non è un caso che si commissariano le banche sotto l’egida della Banca d’Italia; questa individua le soluzioni: in genere il venerdì commissaria ed il lunedì mattina la banca ha già una nuova fisionomia (entra in un gruppo, viene acquistata da un’altra banca, c’è insomma una soluzione).
Quindi non solo non ho suggerito, ma ho sconsigliato di fare il commissariamento per tantissime buone ragioni. Chi ha un minimo di esperienza in queste cose non poteva che sconsigliarlo. Perché sia stato fatto non lo so. Una cosa è certa: nell’unico colloquio che ho avuto con il ministro Goria, quando ci siamo salutati mi ha detto che mi avrebbe tenuto informato; dopo di che non mi ha più chiamato ed ho poi saputo del commissariamento. Al riguardo questo è tutto ciò che posso dire.
Perché poi la vicenda abbia preso una piega piuttosto che un’altra (a suo tempo si parlava di liquidazione coatta amministrativa, piuttosto che di concordato), non sono in grado di dirlo non avendo vissuto quella fase; ritengo che la persona più adatta a fornire chiarimenti possa essere il presidente del tribunale fallimentare, che sicuramente conosce meglio di me questi aspetti. Quello che posso dire è che la natura della Federconsorzi è assai complessa, ibrida; su di essa probabilmente non ci si era mai interrogati e lo si fa in quella circostanza. E’ chiaro allora che le opinioni si moltiplicano ed anche la confusione. Alla fine si va verso il concordato preventivo, ma sono tutti fatti che accadono quando io sono al di fuori, non ho alcun ruolo nella vicenda. Io entro in scena quando è stato deciso il concordato preventivo, quando c’è uno stock di beni da vendere. A questo punto si pone il problema di venderli nel modo più razionale. Non si tratta quindi di un piano complicato.
Ci si chiede perché le banche "affidassero" così generosamente la Federconsorzi. Non dimentichiamo che anche le banche estere hanno "affidato" la Federconsorzi. La verità è che si era generato il convincimento che la Federconsorzi fosse quasi un tutt’uno con lo Stato e che quindi prestare soldi ad essa o allo Stato fosse quasi la stessa cosa. Vi ricordo che in quello stesso periodo vi fu la vicenda dell’Efim. Chi ha dato i soldi all’Efim? La verità è che venivano dati sulla base di un presupposto che poteva valere allora, ma che poi, alla luce dei fatti intervenuti successivamente, non è stato più valido.
Non credo quindi che vi siano stati chissà quali disegni; a mio parere non c’è stato assolutamente nulla; si è trattato semplicemente di un fatto inerziale: tutti "affidano" la Federconsorzi, tutti sono tranquilli e questa, nonostante la situazione in cui versava, era un cliente particolarmente conteso dalle banche perché si riteneva che prestare soldi alla Federconsorzi sostanzialmente non presentasse alcun rischio. Che fossero tutti impreparati è dimostrato dal fatto che dopo il commissariamento non sapevano che fare; per mesi e mesi si sono tenute lunghe riunioni all’ABI, si è discettato di tutto senza cavare un ragno dal buco, proprio perché si era assolutamente impreparati ad affrontare una tale situazione.
Quando entro in scena lo faccio per un compito tutto sommato di contenuto relativamente scarso. Ci sono dei beni che vanno venduti, ormai si è presa questa strada. La Federconsorzi non è più un’azienda risanabile, anzi non esiste più come azienda; dal punto di vista tecnico-economico è una massa informe di beni e tutto si riduce a realizzare nel modo migliore la massa di questi cespiti. Più che affidare la vendita alle normali procedure giudiziarie che sappiamo rivelarsi, senza colpa di alcuno, particolarmente inefficienti, si cerca di trovare una formula che in qualche modo sia più idonea, tuteli i creditori e, indirettamente, dia anche un contributo al problema dell’occupazione.
PRESIDENTE. Professor Capaldo, non le sembra strano che il tribunale fallimentare - in particolare colui che decise era il magistrato Greco - secondo l’ipotesi accusatoria, in prossimità della delibazione della sentenza di omologa del concordato preventivo Fedit, abbia rigettato tutte le istanze dei commissari governativi a conoscere la congruità del prezzo di cessione, in modo da favorire la proposta Casella? Addirittura viene accolta la consulenza del professor Carbonetti sulla congruità del prezzo, allorquando egli già era amministratore della S.G.R..
CAPALDO. Stiamo parlando del 27 maggio 1992. La S.G.R. viene costituita nell’aprile del 1993, 11 mesi dopo, ed il professor Carbonetti ne diventa consigliere di amministrazione su designazione delle banche.
PRESIDENTE. Ma era stato consulente nella procedura fallimentare. Si colgono queste stranezze.
CAPALDO. Non so se queste siano stranezze. Un professionista può fare una cosa e un’altra. Se egli ha fornito un qualche parere all’amministrazione concordataria o alla Federconsorzi non so, non vedo però che motivi di incompatibilità vi possano essere con l’assunzione della carica di consigliere di amministrazione della S.G.R., società che deve vendere dei beni.
Come lei sa, quando in queste situazioni si operano delle scelte, si cerca di farle anche sulla base della competenza. Se si conoscono i problemi si possono svolgere meglio determinate funzioni. Quando, nel dicembre del 1994, ho lasciato la S.G.R., dietro richiesta dei soci ho suggerito io stesso di nominare il professor Carbonetti presidente, poiché conosceva bene quelle vicende. Tutto qui. Il fatto che il professor Carbonetti avesse fornito 10 mesi prima un parere su aspetti completamente diversi dalla vicenda S.G.R., non vedo che interferenza possa avere. Su questo comunque risponderà il professor Carbonetti stesso o il giudice Greco. Personalmente confesso di non vedere queste stranezze.
Da quanto ho potuto leggere, l’accoglimento della proposta S.G.R. da parte del tribunale trova il consenso di tutti; lo stesso commissario Piovano diede parere favorevole. Si tratta comunque di materia opinabile; nessuno è in grado di dire se conviene di più la vendita in blocco o la vendita frazionata. L’esperienza ci dice che un’operazione di queste dimensioni affidata alle normali procedure diventa difficile. Si poteva fare in mille modi diversi; noi abbiamo fatto una proposta e da essa, sia chiaro, nessuno ha tratto vantaggi, nè le persone che l’hanno costruita nè i soci. Questo è dimostrabilissimo. In fondo la S.G.R. è servita a dare un contributo al personale - che diversamente non lo avrebbe potuto avere, poiché nessuna amministrazione concordataria lo poteva dare - a rimborsare al 100 per cento i piccoli creditori ed a fare un’operazione nell’interesse di tutti i creditori, in quanto la vendita in modo razionale di questi beni ha permesso di far acquisire una maggior quantità di risorse all’amministrazione concordataria. Non dimentichiamo che, fino a 20 giorni fa, giacevano presso l’amministrazione concordataria oltre 1.000 miliardi in attesa di essere distribuiti tra i creditori (non so se in questi giorni lo siano stati), miliardi che evidentemente ha pagato la S.G.R..
Quando sento dire che c’è una dissipazione di 3.000 miliardi mi viene da sorridere. In realtà, se l’amministrazione concordataria - tra spese e "riparti" - ha potuto distribuire 1.000 miliardi (anzi qualcosa in più) e se presso di essa giacciono ancora 1.000 miliardi, è chiaro che questi soldi sono stati pagati dalla S.G.R., non avendo l’amministrazione concordataria altre fonti di entrata. E’ insostenibile la tesi secondo cui nel 1991 suggerisco all’allora ministro dell’agricoltura e foreste Goria di commissariare la Federconsorzi perché…. avrei già in mente di costituire, di lì a due anni, la S.G.R.. Si può sostenere quello che si vuole, ma si ha il dovere di argomentarlo e di rendere plausibile ciò che si dice. Vorrei sapere una sola ragione per chiedere a Goria di commissariare la Fedit: forse per ricavarne poi una massa informe di beni e un’enorme massa di debiti? Poteva avere un senso chiedere a Goria di commissariare la Federconsorzi ma solo a condizione che, magari tre giorni dopo, ci si presentava con una proposta per acquistare l’azienda Federconsorzi e non una massa informe di beni assolutamente insufficiente a pagare i debiti. Tutte le accuse possono essere fatte, ma in qualche modo devono essere rese plausibili.
PRESIDENTE. Vorrei sapere dal professor Capaldo quale era il rapporto tra i crediti privilegiati delle banche ed i crediti chirografari delle stesse.
CAPALDO. Credo che i crediti privilegiati fossero intorno ai 400 miliardi e gli altri intorno ai 4.000, in rapporto circa di uno a dieci.
PRESIDENTE. Professor Capaldo, la decisione delle banche di costituirsi in cordata o in consorzio attraverso la S.G.R. o attraverso altri sistemi che non furono accolti derivava dalla preoccupazione per la presenza di questi crediti chirografari, quindi per tutelare anche quei crediti che in corso d’opera ed in corso di affidamento non erano stati sufficientemente garantiti?
CAPALDO. Faccio fatica a capire la domanda. Preciso che l'amministrazione concordataria ha le sue regole; esiste una gerarchia dei creditori, prima quelli privilegiati e poi quelli chirografari, e in queste regole la S.G.R. non entra assolutamente. La S.G.R. è uno strumento banalissimo di smobilizzo dei beni da parte della procedura concordataria e non entra nel rapporto procedura-creditori. La S.G.R. persegue solamente la finalità della vendita razionale dei beni. La S.G.R. non entra assolutamente nel merito della ripartizione che l’amministrazione concordataria farà del ricavato della vendita. Non esiste un rapporto preferenziale tra il creditore che sia anche socio S.G.R. e la procedura per la ripartizione delle risorse. Sono due cose distinte.
Dobbiamo considerare il ruolo della S.G.R. al livello più basso ossia come strumento per la vendita razionale di una certa massa di beni. Il rapporto tra creditori privilegiati e chirografari è, ripeto, completamente estraneo alla S.G.R. e non poteva quindi influenzare le banche a compiere una scelta piuttosto che un’altra. Le banche, come del resto tutti i creditori, avevano un solo interesse che era quello di perdere il meno possibile, non dico di guadagnare, perché comunque era chiaro che avrebbero perduto. E’ evidente che l’entità della perdita subita dai creditori è direttamente correlata al modo in cui viene smobilizzato l’attivo e quindi all’entità del ricavo netto.
ABBATE. Dipende anche dalla qualità del credito: meno il credito è assistito più aumenta il rischio. Credo, tutto sommato, che a questo si riferisse la domanda del Presidente perché, a fronte di una massa di crediti così rilevante, solo una piccola parte era assistita.
CAPALDO. La Federconsorzi veniva ritenuta debitore primario e quindi i prestiti alla Federconsorzi si facevano senza particolari garanzie. Ma anche questa è una circostanza che esula completamente dal discorso. Quando è stato predisposto il concordato, gli incaricati della sua stesura hanno stabilito delle regole per i creditori, ascoltando le loro ragioni, collocandoli nelle varie caselle. Poi è stata fatta la ricognizione dell’attivo e la stima dei beni. Si dovevano smobilizzare le attività per poter pagare i debiti in quella gerarchia. La S.G.R. non entra assolutamente nella gerarchia dei debiti, non è di sua competenza. Fa solo presente che, dovendo quei beni essere venduti, essa è disposta a comprarli, pagandoli un determinato prezzo. Sottolineo il fatto che li paga attraverso un meccanismo che ho già riferito e che troverete meglio illustrato nel documento che ho distribuito. Tutto qui. Il fatto che alcuni crediti fossero garantiti e altri no può essere rilevante ad altri fini, ma non a quelli dell’operazione S.G.R..
MANCUSO. Professor Capaldo si renderà conto che la nostra indagine riguarda sia il prima che il dopo operazione S.G.R.. Lei ci riferisce circa i fatti che riguardano la sua posizione e la sua competenza funzionale. Però la domanda del Presidente abbracciava un arco di tempo che esula dalle sue possibilità di informazioni, ma che rientra nella nostra indagine. Questo mi pare che debba essere chiarito.
D’ALI’. Devo rilevare che alcune domande formulate dal Presidente hanno riguardato punti che avevo in mente di chiedere. Mi limiterò soltanto a domandare alcuni chiarimenti in merito ai crediti verso i Consorzi Agrari Provinciali, che credo che sia uno degli "equivoci" sui quali si basano le differenze di valutazione. S.G.R. ha acquisito anche questi crediti. Con riguardo alla sua esperienza nell’anno di presidenza della S.G.R., le chiedo che possibilità hanno dimostrato questi crediti di poter essere realizzati e perché S.G.R. ha ritenuto, dovendo procedere ad un realizzo il più rapido e concreto possibile, di dover inserire anche questi crediti. In fondo avrebbero potuto essere lasciati nelle mani della gestione commissariale.
Inoltre, lei dice che si è interessato alla vicenda nel momento in cui ha costituito la S.G.R.. In che veste, se è possibile saperlo? Fu incaricato dai creditori o dalla gestione commissariale? Credo che S.G.R. sia una iniziativa dei creditori, e poiché ascolteremo il dottor Geronzi, le domando in che veste quest’ultimo si è occupato della vicenda S.G.R..
Infine vorrei avere un chiarimento riguardo ai rischi – perché lei ha parlato di rischi – che i soci S.G.R. hanno assunto in questa operazione.
Vuole chiarire alla Commissione quali siano rischi che i soci della S.G.R. hanno assunto in questa operazione e di cui ha fatto precedentemente cenno? Infatti, secondo quanto si rileva negli atti giudiziari, sia da parte della magistratura che di questa Commissione è stata posta molta attenzione riguardo alla esiguità dei flussi finanziari della S.G.R., considerato che il meccanismo di dilazione e quello di immediato realizzo di alcuni beni hanno consentito a questa società di approntare mezzi finanziari molto contenuti.
Ribadisco, quindi, l’opportunità di chiarire alla Commissione quali siano i rischi cui i soci della S.G.R. sarebbero andati incontro nel caso in cui questi realizzi non fossero stati collocati per tempo ( impegni contro cassa).
CAPALDO. Senatore D’Alì, lei in sostanza mi sta chiedendo perché siano stati acquistati anche i crediti. Ebbene, la proposta prevedeva l’acquisto in blocco e ciò conferma ancora una volta lo spirito dell’operazione che voleva puntare ad un determinato risultato vale a dire a chiudere rapidamente la procedura, sempre al fine di ridurre i costi. Infatti, una volta conclusa la procedura e venduto quello di cui si disponeva, si sarebbero effettuati i riparti giungendo in tal modo al termine dell’operazione. Invece, qualora fossero rimasti i crediti, la procedura era condannata a rimanere in piedi indefinitamente finché non fosse spirata l’ultima speranza di recuperare i crediti. Questa è la ragione di fondo.
D’ALI’. La S.G.R. ha assunto il 100 per cento degli attivi della Federconsorzi, oppure ritiene che esistano dei residui?
CAPALDO. Questo non lo so. Mi consta, tuttavia, che nella richiesta di concordato preventivo vi fosse un elenco di beni e quindi debbo immaginare che in esso fossero contemplati tutti o quasi tutti. Quindi, la proposta venne avanzata rispetto all’intero patrimonio proprio perché quello era lo spirito dell’iniziativa e cioè consentire alla procedura di risolvere il problema dello smobilizzo di un complesso di beni per poi concludersi rapidamente. Ora, anche se non fossero stati contemplati i crediti, la proposta - con qualche rettifica - sarebbe stata comunque in piedi in quanto le entrate maggiori non derivavano dai crediti, perché risultava chiaro che questi ultimi avevano scarsissima prospettiva di realizzo.
Bisogna inoltre tenere presente un’altra ragione: la Federconsorzi cessò la propria attività nel maggio 1991, la proposta fu avanzata un anno dopo e l’operazione effettiva venne formalizzata dopo un ulteriore anno, nell’agosto 1993 (due anni e tre mesi dalla data del commissariamento). E’ evidente, quindi, che a quella data i crediti che era possibile incassare erano già stati incamerati dalla Federconsorzi e quindi alla S.G.R. rimaneva ben poco. Infatti, i crediti commerciali - la maggior parte dei crediti verso i consorzi sono di questo tipo - se non vengono incassati nell’arco di due anni non si realizzano più e, proprio in tal senso, le prospettive di realizzo di questi crediti, al momento in cui l’operazione venne perfezionata, e cioè nell’agosto 1993, erano modestissime.
D’ALI’. La S.G.R. acquisì i crediti residui a quella data?
CAPALDO. Sì, senatore D’Alì, effettuando un conguaglio con quelli eventualmente incassati nell’arco di tempo che va dal 30 novembre del 1991 all’agosto del 1993, ossia quando l’operazione si era ormai perfezionata.
Torno quindi a ribadire che, se anche non fossero stati ceduti i crediti, il prezzo definitivo, probabilmente, non sarebbe cambiato moltissimo.
Riguardo poi alla veste con cui mi sono occupato di questa vicenda, debbo dire innanzi tutto che, in realtà, non ne avevo una particolare in quanto nessuno mi chiese di interessarmene. All’epoca, mi riferisco all’agosto 1992, ero presidente del Banco di Santo Spirito - prima della fusione con il Banco di Roma - e decisi di occuparmi di questa operazione per varie ragioni. In primo luogo, per una sorta di curiosità professionale (negli anni ‘70 mi sono dedicato allo studio della crisi delle imprese e delle ipotesi di risanamento). In seconda istanza, anche se provo un certo disagio nell’affermarlo, lo feci per tenere fede ad una sorta di impegno sociale visto che ritenevo che, tutto sommato, se si fosse potuta realizzare una seria operazione di smobilizzo, essa sarebbe tornata a vantaggio di tutti. Bisogna infatti tenere presente che quella situazione stava creando gravi disagi a molte persone, lo dimostravano le vivaci proteste dei creditori e l’occupazione della sede della Federconsorzi da parte dei suoi dipendenti. Pertanto, ritenni che, se si fosse reso efficiente lo smobilizzo dei beni, destinando una parte delle risorse prodotte dalla maggiore efficienza proprio a risolvere qualche problema di ordine sociale, sarebbe stato certamente un fatto positivo. Infine, non va dimenticato che ero comunque il presidente di una delle banche creditrici, ma posso senz’altro affermare che questo dato non rappresentò il motivo più importante del mio impegno in questo ambito.
Riguardo poi alla questione del dottor Geronzi, posso dire che egli non ebbe alcun ruolo in questa vicenda, dal momento che veniva informato da me allo stesso modo in cui venivano messi al corrente tutti gli amministratori e direttori generali delle altre banche creditrici, mi riferisco cioè a quei soggetti che, una volta accettato il piano, avrebbero dovuto occuparsi concretamente della sua realizzazione.
Tengo a ribadire che l’idea di questa operazione è mia, anche se naturalmente essa è stata attuata da altri, cioè da quei trenta, quaranta soci ognuno dei quali ha dovuto proporre una delibera al proprio consiglio di amministrazione sulla base di un progetto che andava portato avanti. In questi termini - se c’è colpa - mi ritengo colpevole di aver avuto l’idea.
Tornando al merito della questione, man mano che la situazione evolveva, nel corso di riunioni periodiche, provvedevo ad informare dei suoi sviluppi i vari soggetti e, dal momento che ero presidente del Banco di Santo Spirito - anche se non avevo un ruolo molto operativo - di cui il dottor Geronzi era direttore generale, era ovvio che, vedendoci quasi quotidianamente, mi capitasse di partecipargli le eventuali novità che riguardavano questo progetto, come del resto facevo con altri dirigenti.
Francamente, quindi, non riesco a comprendere perché il dottor Geronzi abbia finito per essere coinvolto in questa vicenda, quando il suo ruolo non era in alcun modo diverso da quello degli altri dirigenti delle società che parteciparono all’operazione. Questo è stato da me dichiarato anche ai magistrati della Procura della Repubblica di Perugia.
PRESIDENTE. Onestamente, devo anch’io rilevare che nel documento di rinvio a giudizio la posizione relativa al dottor Geronzi è scarsamente enucleata.
CAPALDO. Desidero ora rispondere alla terza domanda del senatore D’Alì, il quale mi sembra abbia posto la distinzione fra fabbisogno finanziario e rischio dell’operazione. Ebbene, questo aspetto rappresenta a mio avviso un punto centrale della questione, da cui credo derivi, in parte, anche l’equivoco che si è determinato. Come vi ho già detto, l’operazione si strutturò nel seguente modo: 2.150 miliardi pagabili per un 15 per cento immediatamente, per un 42,5 per cento a 12 mesi e per la restante parte a 18 mesi.
Quando la S.G.R. formalizzò l'operazione ebbe a constatare che, nel frattempo, una parte delle attività era stata già realizzata – alcuni crediti erano stati infatti già incassati – e quindi la portò a deconto della prima rata. Successivamente iniziarono le operazioni di vendita e siccome S.G.R. non doveva pagare immediatamente, in quanto la seconda rata di pagamento era prevista dopo un certo periodo di tempo, via via che venivano effettuate le vendite, le somme di denaro incassate venivano versate in un conto corrente, per poi essere utilizzate per il saldo della seconda rata, che comportò un conguaglio di soli 50-60 miliardi.
La S.G.R. infatti non ebbe mai bisogno di indebitarsi per 2.150 miliardi dal momento che il debito per il pagamento del prezzo poteva essere in parte coperto con gli incassi dei realizzi.
E’ quello che accade, ad esempio, nelle grandi catene di supermercati che, di norma, quando vendono le merci e ne incassano il prezzo, non le hanno ancora pagate ai rispettivi fornitori. L’esperienza ci dice che tali aziende pagano i fornitori con una dilazione di 90 giorni e vendono dopo una giacenza media di 30 giorni. E’ la stessa logica seguita un tempo dai costruttori i quali, nel momento in cui cominciavano la fabbricazione di un palazzo, iniziavano a vendere sulla carta, cosicché il fabbisogno finanziario era un po’ più basso dell’investimento complessivo, essendo in parte coperto dalle entrate derivanti dalle vendite.
Dimenticavo di dirvi che S.G.R. era nata con un capitale sociale modesto, pari a 10 miliardi di lire, successivamente aumentati a 30. La ragione di ciò stava nel fatto di voler facilitare al massimo l’adesione dei creditori Fedit. Infatti, se il capitale fosse stato più elevato, anche gli impegni finanziari dei soci sarebbero stati maggiori. Il capitale iniziale, quindi, era piuttosto modesto e la società in principio si finanziò essenzialmente contraendo debiti. La punta massima di esposizione finanziaria è stata intorno ai 700 miliardi, in occasione del pagamento della terza rata. Ciò fu possibile perché, nel frattempo, erano stati venduti molti beni di più facile smobilizzo e il netto ricavo degli incassi, derivanti da tale vendita, aveva consentito di pagare in parte le rate. Quindi l’indebitamento toccò la sua punta massima, circa 700 miliardi di lire, al momento del pagamento della terza rata nel febbraio 1995. Ciò non toglie che il rischio dell’intera operazione restava comunque di 2150 miliardi di lire, così come il rischio che sopporta il costruttore di un palazzo, il cui costo è pari a 50 miliardi, è comunque di 50 miliardi, anche se si indebita al massimo per un importo di 20 o 25 miliardi, avendo nel frattempo cominciato a vendere.
Quindi - ripeto - il massimo del fabbisogno finanziario si è registrato al pagamento della terza rata, con un importo attorno ai 700 miliardi, ma il rischio di tutta l’operazione resta comunque di 2150 miliardi. Le cose poi sono andate nel modo in cui tutti conosciamo; potevano andare meglio, ma potevano andare anche molto peggio. Tutte queste informazioni ovviamente vi potranno essere fornite con maggiori dettagli dai rappresentanti della S.G.R..
La situazione, a distanza di circa 6 anni dall’inizio dell’attività, è a grandi linee, quella che vi ho descritto. Attualmente S.G.R. ha ancora passività finanziarie per circa 300 miliardi, ma può ancora liquidare altre attività di cui dispone. Le "previsioni a finire" della liquidazione, che a me sembrano del tutto realistiche, fanno ritenere che, di qui a qualche tempo, quando la società avrà liquidato tutto, chiuderà sostanzialmente in pareggio. Quindi i soci della S.G.R. saranno rimborsati del capitale sociale, ma non ricaveranno alcun utile dalla loro partecipazione alla società.
L’equivoco - a mio giudizio - sta proprio in questo passaggio: la Procura di Perugia dice che essendo stato l’indebitamento massimo della S.G.R. di 700 miliardi, il costo complessivo dei beni che essa ha acquistato dalla Fedit, non è pari a 2150 miliardi di lire, ma solo a 700 miliardi.
Ora, non ci vuole molto a capire che questo ragionamento non può essere condiviso. In teoria poteva anche non esserci alcun indebitamento, se i soci si fossero finanziati interamente con capitale proprio, ma questo non avrebbe provato nulla. Resta il fatto che la società ha investito 2150 miliardi. Del resto, voi avete la riprova che la S.G.R. ha pagato, perché l’amministrazione concordataria ha già distribuito - ma questi sono dati che vi riferisco in linea di massima - più di 1000 miliardi, avendo pagato a suo tempo i creditori privilegiati e avendo corrisposto il 20 per cento ad altri creditori. In più, almeno fino ad un mese fa, la società aveva ancora a disposizione oltre 1000 miliardi. Questi soldi da dove sono arrivati? Sono evidentemente i 2150 miliardi pagati da S.G.R..
Quindi, sostenere - sulla base della constatazione che S.G.R. si è indebitata al massimo per 700 miliardi di lire - che i beni sono costati 700 miliardi, è un’affermazione che lascio a voi giudicare. In realtà, la Procura di Perugia va addirittura oltre. Afferma, infatti, non solo che i beni sono costati 700 miliardi di lire invece che 2150 miliardi, ma che neppure questi 700 miliardi hanno comportato un esborso effettivo da parte dei soci, dal momento che sono stati pagati con i soldi che i creditori soci della S.G.R. avevano già ricevuto o avrebbero comunque ricevuto in sede di riparto. Tengo a precisare che i soci S.G.R., in qualità di creditori Fedit, riceveranno in proporzione le stesse somme degli altri creditori, indipendentemente dal fatto di aver partecipato alla società. Leggendo gli atti della Procura, invece, ad un certo punto sembra che i beni non siano costati nulla. Si assume che S.G.R. i beni li abbia presi, ma non li abbia pagati. Di fronte a simili affermazioni si resta esterefatti, non si sa cosa dire.
Per rispondere quindi alla sua domanda - e concludo - è fondamentale la differenza esistente tra fabbisogno finanziario e investimento, differenza che tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza di questa materia non possono non capire. L’investimento è una cosa, il fabbisogno finanziario è un’altra. Posso realizzare un grande investimento, che comporta notevoli rischi, e avere comunque uno scarso fabbisogno finanziario perché ottengo dilazioni di pagamento dai fornitori. Ma è chiaro che ho contratto dei debiti che prima o poi dovrò pagare.
Ciò che rileva agli effetti dell’apprezzamento dei rischi di un’operazione è la dimensione dell’investimento. E qui non c’è alcun dubbio che la dimensione dell’investimento era pari a 2150 miliardi di lire. Quando, nel maggio 1992, i promotori avanzarono quella proposta, si impegnarono per una cifra pari a 2150 miliardi di lire. Una volta accettata la proposta, comunque fossero andate le cose, i 2150 miliardi dovevano essere pagati. Se l’iniziativa del sequestro di tutti i beni fosse stata presa dalla Procura della Repubblica di Perugia nel 1994, invece che nel 1996, sarebbe stato un disastro per la S.G.R.. Fortunatamente è stata presa quando già la maggior parte dei beni era stata venduta. Se fosse stata presa prima e avesse bloccato la vendita dei cespiti, sarebbe stato un vero disastro per la società e di conseguenza per i soci.
Questo è il punto cruciale della vicenda. Attraverso un modo di argomentare molto singolare, la Procura di Perugia assume che S.G.R. abbia acquisito i beni senza pagarli e ne deduce che abbia guadagnato 2000 miliardi; anzi, dice addirittura 3000 miliardi.
MANCUSO. Professore Capaldo lei ha ripetutamente, o per lo meno fortemente, motivato la sua iniziativa con una ragione, fra le altre, che attiene alla sua sensibilità sociale, cioè ha visto nell’iniziativa qualcosa che attenesse al pubblico interesse. La cosa è astrattamente credibile. E’ in grado di dirci quali siano state, nella sua vita professionale e in quella di docente, le modalità attraverso le quali ha in qualche modo concretizzato questo suo impegno sociale?
CAPALDO. Onorevole Mancuso, è con un po’ di disagio che parlo di certi aspetti personali. Anche il vostro è un impegno sociale; il fatto che siate qui è un impegno sociale e civile che ognuno svolge a suo modo.
Per quanto mi riguarda, tale impegno lo assumo nel campo del volontariato. Qualche anno fa, ho dato vita ad una fondazione che si occupa proprio di problemi di questo genere e di diffondere la cultura della solidarietà. E’ un impegno personale. Non so cosa dirle, mi è un po’ difficile parlarne.
PRESIDENTE. Credo che la domanda del senatore Mancuso nasconda qualche refuso.
CAPALDO. Nasconde un tranello.
MANCUSO. Non è nella mia mentalità tendere tranelli. Poiché sono un frequentatore di biblioteche ho potuto constatare, attraverso le pubblicazioni che in esse si possono consultare, la ricchezza del suo impegno sociale. Questo lei, professore, non lo ha voluto confessare, ma lo depongo io.
La seconda domanda che desidero porre è la seguente. Può avere avuto incidenza, in questa difformità di risultati valutativi e numerici, tra ciò che lei asserisce e le risultanze dell’indagine giudiziaria, il fatto che, in molte circostanze, come lei ha detto, i beni effettivamente acquisiti dalla società, anziché passare dalla sua posizione di acquirente, venivano direttamente acquisiti dai terzi? Questa è un’ operazione che dipende dalla figura che in questi casi la società andava ad assumere, ad esempio come mandataria del terzo che avrebbe acquistato o in altra forma giuridica. Ma dal punto di vista contabile questo salto nella formalizzazione dell’operazione di passaggio può aver avuto influenza in questa sorta di diversità conclusiva, che lei ha denunziato come causa di errore?
CAPALDO. Potrebbe, ma mi parrebbe strano. Consentitemi di esprimermi in termini non tecnici, non giuridici, anche perché giurista non sono. In fondo, la formula che ricordavo prima equivale alla formula che comunemente viene indicata nei compromessi "acquista per sè o per persona da designare"; suppergiù si tratta della stessa cosa. La S.G.R. acquista questi beni, ma non ne fa subito il trasferimento a proprio favore; poiché sono beni destinati ad essere venduti … si prende sei mesi, un anno di tempo, e se nel frattempo li vende dirà a quale soggetto trasferirli: resta inteso che la S.G.R. dovrà comunque pagare il prezzo; essa si riserva semplicemente di indicare il soggetto a favore del quale il trasferimento deve essere operato. Questo per evitare un doppio passaggio; infatti soprattutto sui beni immobili i costi di trasferimento sono molto elevati, del 10 - 12 per cento, sui terreni addirittura del 15 per cento. Quindi per evitare che, magari a distanza di qualche settimana, vi fosse un doppio passaggio e un doppio onere - fermo restando che la S.G.R. ha comprato questi beni, fermo restando che pagherà la prima rata e tutte le altre rate alle scadenze previste - si tiene sospeso il trasferimento dei beni, in attesa che si indichi il soggetto cui il trasferimento deve essere fatto.
PRESIDENTE. Indipendentemente dal prezzo? Può sorgere un equivoco se il bene era stato imputato per un certo prezzo nell’offerta globale.
CAPALDO. Apro una parentesi. Il prezzo è globale (per 2.150 miliardi si è comprato tutto), quindi nessun valore singolo ha la sua autonomia. Purtroppo nella nostra legislazione - e forse si dovrebbe riflettere su questo aspetto - agli effetti fiscali non sono consentite le vendite in blocco perché la tassazione viene fatta sui trasferimenti in modo differenziato a seconda dei beni. Sicché a meri effetti fiscali, la cifra di 2.150 miliardi deve essere stata scomposta; dico "deve essere stata" perché non mi sono occupato di tale questione. E’ un fatto meramente fiscale. Gli eventuali valori attribuiti ai singoli cespiti, che devono risultare dalla contabilità, sono valori assolutamente privi di significato economico; posso vendere un bene e guadagnare molto e venderne un altro e perdere molto, ma sono tutte apparenze.
L’operazione va quindi ricondotta alla sua unità. L’atomizzazione di questo prezzo complessivo non ha un suo significato economico, ma ha solo un significato fiscale. I conti si traggono alla fine e questi saranno in pareggio, come potranno confermare i soggetti della S.G.R..
Quindi era irrilevante il confronto tra il prezzo a cui il bene veniva venduto al terzo e il relativo costo.
MANCUSO. E’ un meccanismo che si utilizza per i compromessi, quello della persona da designare.
CAPALDO. Questa formula in realtà era gradita anche al venditore perché, in questo modo, egli era garantito: il bene restava ancora nella sua "disponibilità" ed i ricavi delle vendite, nelle more del pagamento del prezzo, erano depositati su un conto bancario destinato al pagamento delle rate di prezzo. Quindi vi era una convergenza di interessi.
MANCUSO. Professore, quale fu la ragione per cui lei lasciò la carica di presidente e la ragione per cui suggerì la possibilità che a succederle fosse il professor Carbonetti? Premetto che personalmente non vedo incompatibilità alcuna tra l’esercizio di un’attività professionale su materia diversa, e la partecipazione come presidente a quella società; non ravviso alcunché conoscendo il mercato dei professionisti.
CAPALDO. Devo dire che non volevo essere presidente della S.G.R., non fosse altro che per i tanti impegni che avevo; tuttavia da parte dei soci si insistette affinché accettassi la carica e a me parve doveroso accettare.
Una volta però impostata l’attività su binari sicuri, tranquilli, una volta definite tutte le procedure, cioè dopo un anno, mi parve possibile lasciare. Quindi lasciai dopo circa un anno e 4 mesi. Si pose, a quel punto, il problema della presidenza ed i soci mi chiesero un parere. Consigliai il professor Carbonetti perché è un giurista, ha sensibilità economica, conosceva bene i problemi e, tra gli amministratori, era quello che si era più impegnato in quell’anno e mezzo di attività. Consigliai loro di interpellarlo per conoscere la sua disponibilità, giacchè, a mio avviso, questa rappresentava la soluzione migliore. Come sapete il professor Carbonetti accettò l’incarico.
PRESIDENTE. Vorrei un chiarimento per quanto riguarda la posizione del professor Carbonetti. Mi riferivo ad una incompatibilità presunta sulla base di una delle stranezze citate nel documento di richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Perugia; stranezza che veniva argomentata con il fatto che la consulenza del professor Carbonetti, circa la congruità della proposta Casella, fu depositata il giorno prima dell’omologa del concordato. L’altra stranezza è che la consulenza (che fu retribuita) ed il parere non sono stati trovati negli atti, se non in una copia informale. Rilevavo questo dal documento di richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Perugia; non si trattava di una mia considerazione e per questo ho voluto precisare la questione. Quindi concordo con l’onorevole Mancuso.
CAPALDO. Voglio precisare che ho letto proprio in questi giorni il parere del professor Carbonetti e – a mio avviso - non è assolutamente un parere sulla congruità del prezzo. Non essendo del resto il professor Carbonetti un esperto in materia economica credo non avrebbe mai dato un parere di congruità. Si tratta semplicemente di un parere riguardo a certi aspetti formali.
PRESIDENTE. Dell’offerta.
CAPALDO. Ho capito, però in coscienza voglio ribadire che non c’è alcun giudizio di congruità del prezzo.
CARUSO Antonino. La sua stagione professionale di collaborazione con la Federconsorzi inizia nel 1988 quando – l’ho letto in uno degli interrogatori che ha reso alla Procura di Perugia – le viene richiesto dall’onorevole Lobianco di dare alcuni pareri sull’assetto organizzativo della medesima. Questi rapporti proseguono poi fino al 1990 e, secondo quanto da lei affermato, si sono diradati al tempo del ministro Goria e non ho dubbi su quanto lei ha dichiarato e cioè che, durante questo periodo, ha svolto attività di consulente a titolo di cortesia e senza percepire alcun compenso professionale.
Vi è peraltro da dire che in altri documenti – credo che si tratti della relazione redatta dalla Commissione governativa del 1995 – tale dottor Cocco dichiara reiteratamente che alla Federconsorzi - quanto meno nella stagione 1989-1991 – "foglia non cadeva se Capaldo non voleva".
Arriviamo al maggio 1991, dopo Pasqua. Lei dichiara di essere stato chiamato dall’allora ministro dell’agricoltura onorevole Goria che - da quanto si può leggere dalle carte – testualmente le dice: " Professor Capaldo, ho in mente di commissariare la Federconsorzi, lei cosa ne pensa?". A tale domanda a bruciapelo, lei risponde, altrettanto a bruciapelo, di essere contrario, con una motivazione che peraltro mi sento di condividere. Quello che francamente non riesco a giudicare plausibile è che il ministro Goria non le abbia detto il motivo per cui voleva commissariare la Federconsorzi e, soprattutto, l’obiettivo che intendeva conseguire con il commissariamento della stessa. La mia domanda è, più che altro, una richiesta di approfondimento del colloquio con l’onorevole Goria. Inoltre, vorrei sapere se lei si limitò a sconsigliare la procedura di commissariamento oppure se propose una soluzione alternativa.
CAPALDO. Chiariamo la questione della consulenza. La mia non è stata mai una consulenza in senso tecnico. Mi è stato chiesto più volte di trasformare questa consulenza in un rapporto di tipo professionale, ma non ho mai voluto anche perché essa non acquisiva mai la connotazione di una collaborazione concreta. Ho sempre detto all’onorevole Lobianco che, nel momento in cui avessero deciso di prendere delle iniziative concrete, avremmo potuto intraprendere una collaborazione di tipo professionale, ma questo non poteva accadere finché ci incontravamo e parlavamo del più e del meno, dando io solamente qualche consiglio.
Inoltre l’ho letta anch’io la frase di questo signore che non conosco: "Non si muove foglia che Capaldo non voglia". E’ probabile, anzi certo, che venisse fatto spesso il mio nome soprattutto quando gli amministratori, il direttore o il presidente avevano in mente di realizzare qualcosa e non riuscivano a deliberare. Provatevi ad immaginare cosa significasse, per la realtà di quegli anni, chiudere consorzi agricoli ed accorparli. Probabilmente si discuteva di tutto questo in consiglio d’amministrazione e, pensando che la cosa potesse agevolare certe scelte, si diceva che anche il professor Capaldo era d’accordo con queste proposte.
Non mi sono mai occupato di specifiche operazioni della Federconsorzi, ma mi hanno sempre posto problemi di carattere strategico, di carattere generale. Del resto l’onorevole Lobianco mi chiese, in più occasioni, di incontrare alcune persone, anche rappresentanti della Confagricoltura, per illustrare le mie idee e per indurli ad assumere determinate iniziative che ritenevo giuste e che il Consiglio non riusciva a deliberare perché troppo drastiche e severe per l’Italia di quegli anni.
Per quanto riguarda l’onorevole Goria, sono stato un po’ sintetico, ma non troppo, perché il colloquio è stato proprio questo. Goria mi disse di essere molto preoccupato per le sorti della Federconsorzi ed io gli risposi che faceva bene a preoccuparsi. Mi disse inoltre di volerla commissariare ed io allora risposi che avrebbe fatto male, in quanto il commissariamento non rappresentava la soluzione giusta. In ultima istanza, il ministro Goria temeva che, se il problema della Federconsorzi gli fosse "scoppiato in mano", egli sarebbe stato accusato di non avere vigilato. A quel punto osservai che era stato nominato ministro da pochi giorni e quindi faceva bene a preoccuparsi, ma non più di tanto. Gli suggerii, dato che lo statuto della Federconsorzi lo prevedeva, di disporre delle ispezioni, in seguito alle quali avrebbe potuto prendere le sue decisioni.
In merito a questo argomento, se ne sono dette di tutti i colori. Credo che Goria fosse effettivamente in buona fede quando si diceva preoccupato per la sorte di Federconsorzi e credo che egli abbia solo enfatizzato questa sua preoccupazione nel timore che la situazione potesse finire fuori controllo mentre era Ministro dell’agricoltura, quindi con il compito di vigilare su questa realtà.
CARUSO Antonino. A margine di questo argomento vorrei chiederle se, nel corso dei rapporti con l’onorevole Lobianco, ha mai avuto occasione, ed in che misura e quantità, di incontrare l’avvocato Giorgio Zampaglione.
CAPALDO. Non lo conosco.
CARUSO Antonino. Il Ministro Goria, successivamente al commissariamento e nei pochi mesi che intercorrono tra il mese di maggio 1991 e il momento in cui fu presentata la procedura di concordato preventivo, il 3 luglio 1991, ha una corrispondenza che, in alcuni casi, sembrerebbe atipica, con l’ABI con cui il Ministro proponeva qualcosa che poteva essere un piano Capaldo in nuce, cioè un intervento dei creditori bancari nella definizione dell’assetto della Federconsorzi e quindi - forse con una approssimazione successiva - con riferimento alla decisione di presentare la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo da parte dei commissari governativi.
Lei, professor Capaldo, che in quel momento era presidente del Banco di Santo Spirito e quindi partecipe della comunità finanziaria, era al corrente delle discussioni o delle impressioni che si avevano all’interno dell’ABI su questa vicenda, che peraltro impegnava i soci di questa istituzione ad una grossa esposizione?
CAPALDO. Ho già avuto modo precedentemente di sottolineare che, benché fossi presidente del Banco di Santo Spirito, in realtà non ero molto operativo e quindi non mi occupavo di questioni specifiche, ancorché relativamente importanti come quella della Federconsorzi. Ne consegue che, per ragioni di ufficio, non avevo occasione di interessarmi direttamente di questi aspetti - anche se ne ero comunque al corrente - di cui si occupavano invece alcuni dirigenti della banca, fra l’altro recandosi anche alle riunioni presso l’ABI di cui riferivano al direttore generale.
Inoltre, desidero sottolineare che l’idea maturata dal ministro Goria a proposito del problema della Federconsorzi in quella fase non corrispondeva assolutamente a quello che è stato definito dal senatore Caruso il "piano Capaldo in nuce", perché il ministro Goria credo pensasse a qualcosa di più e di diverso da un mero piano di liquidazione, quale in effetti sarà il mio.
Credo che l’idea del ministro Goria fosse del tutto diversa e che volesse tentare di riorganizzare la Federconsorzi su basi differenti, magari con una soluzione di tipo stragiudiziale. Intendo dire che forse il ministro Goria riteneva possibile che, una volta che le banche avessero preso atto della situazione e in qualche modo ridotto la loro esposizione nei confronti della Federconsorzi - attraverso una moratoria o un abbattimento del debito - , si sarebbe potuto realizzare un piano di riorganizzazione e ristrutturazione di quella istituzione; si trattava, quindi, di una concezione completamente diversa da quella su cui si basava la mia idea.
Ripeto, credo che l’onorevole Goria, nei primi mesi di questa vicenda, abbia coltivato l’ipotesi - che poteva essere anche giustissima, considerata l’importanza della realtà federconsortile per l’agricoltura italiana - di una ristrutturazione della Federconsorzi da realizzare anche con il contributo delle banche, le quali avrebbero dovuto rinunciare in parte ai loro crediti.
Per quanto mi riguarda, ritengo che tale ipotesi avrebbe potuto avere ancora senso nelle prime settimane successive al commissariamento in quanto l’azienda esisteva ancora, ma bisogna considerare che nel 1993, quando il cosiddetto "piano Capaldo" venne realizzato, la Federconsorzi non esisteva più come fatto tecnico, economico ed organizzativo.
CARUSO Antonino. Signor Presidente, desideravo esplorare quella piccola nicchia temporale che si colloca tra la data del commissariamento e quella della proposta di concordato.
Lei, professor Capaldo, ha ovviamente compreso benissimo che cosa intendessi dire precedentemente con l’espressione "piano Capaldo in nuce"; certamente si trattava di qualcosa di assai diverso, che poteva essere un congelamento dei crediti delle banche o una amministrazione controllata (anche impropria), piuttosto che un piano di rilancio fondato su basi differenti. In tal senso credo che la domanda di ammissione al concordato preventivo potrebbe anche essere letta come una mossa del ministro Goria rispetto alla posizione di chiusura manifestata dalle banche che in quel frangente mostrarono un atteggiamento che potrebbe essere descritto con la celebre frase: "Muoia Sansone con tutti i Filistei!".
In ogni caso, mi sembra di capire che lei, professor Capaldo, non abbia avuto una conoscenza diretta di quello che era il pensiero maturato all’interno dell’ABI?
PRESIDENTE. Mi consta che, nel giugno 1991, si siano svolte due riunioni presso l’ABI, di cui una a seguito della lettera di sollecitazione del ministro Goria, datata 13 giugno 1991, nella quale si auspicava che: "Le banche...potessero trasformare i loro crediti in quote di capitale di una società che avrebbe come unico scopo quello di realizzare al meglio il patrimonio della Federconsorzi..."
CAPALDO. Desidero ribadire che, dopo le dichiarazioni del ministro Goria in base alle quali sarei stato informato di ogni eventuale provvedimento - cosa che non avvenne - e successivamente alla decisione dello stesso Ministro di procedere al commissariamento, non ebbi più alcun motivo di occuparmi di questa vicenda, che a quel punto si era trasformata in una normale questione di crediti in sofferenza di cui si interessavano gli uffici competenti. Ovviamente, leggevo le notizie pubblicate nel merito dalla stampa, ma senza prestarvi particolare attenzione dal momento che, a mio avviso, si trattava di una vicenda che aveva preso una piega sbagliata.
Con il trascorrere del tempo, di fronte al deteriorarsi ulteriore della situazione, nel gennaio del 1992, maturai l’idea di cui vi ho già riferito.
CARUSO Antonino. C’è un ulteriore argomento sul quale desidero porle una domanda. Mi riferisco a quello che definirei il "balletto delle valutazioni" che a mio avviso ha anche delle spiegazioni. Infatti, le valutazioni dell’attività della Federconsorzi ebbero delle motivazioni diverse, a seconda delle stagioni in cui furono effettuate. La valutazione più alta fu di 4.800 miliardi ed è quella svolta dai periti del tribunale; quella immediatamente inferiore, di 4.120 miliardi, è contenuta nell’istanza di concordato preventivo ed è sostanzialmente identica a quella riportata nella prima delle due relazioni che vennero fatte svolgere dai commissari governativi. La prima è datata 3 luglio 1991 e di fatto venne aggiustata rispetto alla seconda del 30 novembre 1991 solo nel dettaglio tecnico e servì per presentare la domanda di concordato preventivo. Tale valutazione in quel momento presiedette ad uno scopo preciso, ossia quello di sostenere la presentazione della domanda di concordato preventivo.
La Federconsorzi chiese di essere ammessa alla procedura e per farlo dovette presentare delle attività tali da generare - almeno in via presumibile - un importo sufficiente al fabbisogno fallimentare. Non a caso la valutazione successiva fu addirittura di maggior rilievo, perché evidentemente l’evoluzione di quella stagione concorsuale consigliò al tribunale di pronunciarsi su una domanda di concordato con un fabbisogno assicurato.
Lei, professor Capaldo, tra le varie ipotesi di valutazione dell’attività, agli effetti della formazione del prezzo da parte della S.G.R., individua quella del commissario giudiziale, stabilita in 3.939 miliardi, affermando che questa valutazione nasce da una rettifica, fatta probabilmente in maniera poco organica dal commissario giudiziale, di analisi precedenti. I soci S.G.R. decisero comunque di ridurre tale stima ad un valore di circa 3000 miliardi di lire.
Quindi, il punto di partenza è rappresentato dalla cifra di 3939 miliardi, sulla quale si effettua un primo taglio che riduce la somma a circa 3000 miliardi.
CAPALDO. Il processo che porta alla determinazione del prezzo è estremamente complesso.
CARUSO Antonino. Ho parlato di 3000 miliardi, in realtà l’avvocato Casella individua questo importo tra 3060 e 3140 miliardi. Da questa valutazione - come da lei giustamente affermato - si doveva poi arrivare al prezzo tenendo conto di altre componenti; innanzi tutto dei costi necessari per la gestione del realizzo dei beni, che furono individuati in un importo pari al 4-5 per cento di 3939 miliardi, cioè del valore stimato dal commissario giudiziale, e questa mi sembra un’incongruenza sulla quale le chiedo un chiarimento. Fin qui direi che la previsione S.G.R. fu millimetrica, perché i 4-5 punti percentuali, tradotti in denaro corrispondono a circa 160-200 miliardi. Leggendo uno dei documenti che lei ha presentato alla Procura di Perugia constatiamo che l’importo di 160 miliardi corrisponde alle spese di gestione S.G.R..
Lei poi afferma che un’altra consistente riduzione, dell’ordine del 16 per cento, venne operata con riferimento al rischio che i soci S.G.R. si assumevano. Ho seguito perfettamente il ragionamento da lei svolto con riferimento alla distinzione tra fabbisogno finanziario e impegno economico, riguardo alle obiezioni che le sono state rivolte e cioè che la S.G.R., prima ancora di pagare una qualsiasi somma alla Federconsorzi aveva già nelle sue casse una cifra certa. Lei più volte ha parlato di un conto corrente destinato della S.G.R..
CAPALDO. Mi scusi senatore se la interrompo, ma credo che S.G.R. non potesse usare quei soldi in quanto vincolati al pagamento.
CARUSO Antonino. Capisco perfettamente. Tuttavia voglio chiederle quale plausibilità abbia il fatto che il pagamento sia stato poi pattuito in forma dilazionata con un abbattimento del valore stimato per pervenire al prezzo che, viceversa, tiene conto del fatto opposto, cioè che doveva prevedersi un impegno finanziario.
Più volte, nel corso di questa audizione, ma anche negli interrogatori resi davanti all’autorità giudiziaria di Perugia, lei ha sostenuto i suoi ragionamenti con la logica del senno del poi, affermando che oggi S.G.R., oltre ad avere ancora dei debiti, ha anche partecipazioni, immobili e beni da vendere. Con un esercizio di fantasia, però, tornando quindi all’epoca dei fatti, nessuno poteva immaginare che a un certo punto il meccanismo si sarebbe inceppato in maniera tale da farla diventare protagonista di un procedimento penale e da portare al sequestro dei beni S.G.R..
Le chiedo pertanto di spiegare meglio la vicenda.
CAPALDO. Sulla questione del meccanismo inceppato - come ho detto prima - è una fortuna che esso si sia inceppato a cose quasi fatte.
CARUSO Antonino. Si poteva anche fare in modo che il meccanismo non si inceppasse e che la Procura della Repubblica di Perugia non dovesse avviare delle indagini.
CAPALDO. Senatore, lei mi rimprovera che, per dimostrare la congruità del prezzo, ho usato spesso la formula del senno di poi, mentre sarebbe stato opportuno calarsi nella realtà dell’epoca.
Calandoci quindi nella realtà dell’epoca, dobbiamo vedere come è stato determinato il prezzo. Innanzitutto, faccio notare che di fronte ad un’operazione di tali dimensioni, in cui si parla di cifre dell’ordine di migliaia di miliardi, è chiaro che il grado di approssimazione è comunque molto elevato. Il ragionamento che allora fu portato avanti era il seguente: si partiva da una stima di 3939 miliardi, basata su cifre che ritenevamo assolutamente inattendibili in materia di crediti e di immobili. Si ritenne pertanto necessario operare un abbattimento attorno al 20-22 per cento e già questo significa circa 800 miliardi di differenza. Operando quindi un abbattimento, portammo la cifra intorno ai 3000 miliardi, perché a nostro avviso quelle valutazioni per essere più realistiche andavano ridotte a quella cifra. Nel frattempo, del resto, il mercato tendeva a flettere. Effettuata tale riduzione, dovevamo passare da una stima realistica del valore dei beni alla determinazione di un prezzo, con tutti i rischi che ne derivavano, considerando anche l’importanza del fattore tempo. Il commissario, al di là dell’importo di 3939 miliardi, in materia di tempo non diceva alcunché. L’operazione quindi avrebbe potuto trascinarsi anche per 10 anni. Insomma la società avrebbe potuto incassare attorno ai 3000 miliardi, ma per ottenere tale risultato aveva certamente bisogno di tempo. Poiché c’era un differimento temporale tra il momento in cui la società effettuava il pagamento e quello in cui prevedeva di incassare si generava un interesse passivo di cui era necessario tener conto. Occorreva perciò considerare gli interessi passivi sul fabbisogno finanziario, oltre al fatto che la società aveva bisogno di una struttura e doveva anche affrontare tutti i rischi d’impresa insiti nell’operazione.
Per determinare il prezzo si è partiti dunque dalla cifra di 3939 miliardi, ridotta poi, per le ragioni già dette, a circa 3000-3050; si è tenuto conto quindi dei costi per la gestione del realizzo dei beni, stimati pari al 4-5 per cento dei ricavi; infine, si è assunto un differimento medio tra pagamento del prezzo e incasso dei ricavi di due anni, che tiene conto evidentemente della dilazione di pagamento contenuta nella proposta. Tengo a sottolineare che a distanza di 6-7 anni l’operazione non è ancora terminata. Inoltre, poiché in questo tipo di investimenti non si può applicare il puro tasso di interesse, essendo implicita una componente di rischio, il tasso di attualizzazione fu assunto pari al 16 per cento annuo (contro un tasso corrente del 12-13 per cento). Da questo calcolo derivò un valore compreso tra i 2.175 e i 2.250 miliardi di lire. Fu questo il procedimento seguito nella determinazione del prezzo. Aggiungo che esso non piacque ad alcuni potenziali soci, tant’è che non entrarono nella società, ritenendo che il prezzo fosse piuttosto elevato e non scontasse il rischio. In realtà, questo prezzo, nei fatti, non sconta il rischio altrimenti avrebbe dovuto essere molto più basso. Muovendo da un importo compreso tra 2.175 e 2.250 miliardi, tenuto conto di tutto il resto che abbiamo detto (l’acquisto dei crediti al di sotto dei 20 milioni, interventi a favore del personale) arriviamo alla cifra di 2.150 miliardi.
Quindi il meccanismo di determinazione del prezzo è abbastanza chiaro. Certamente su 2.150 miliardi, pagare 50 miliardi in più o in meno non avrebbe cambiato moltissimo le cose. Quando affermo che la S.G.R. chiuderà il proprio bilancio in sostanziale pareggio ciò non esclude che il risultato effettivo possa essere 30 miliardi di perdita o 50 miliardi di utile; la dimensione del fenomeno è tale che un divario del 3 o del 4 per cento non muta i termini della questione.
CARUSO Antonino. Dopo l’intervenuta transazione il discorso non è revocabile, ma si tratta pur sempre del senno del poi. Infatti, andando a rivedere l’andamento del fabbisogno da finanziare nei documenti di provenienza della S.G.R., che sono stati forniti al magistrato, si vede che, se il Parlamento avesse approvato l’emendamento che tutti ricordiamo alla legge finanziaria del 1996, probabilmente il capodanno di quell’anno sarebbe stato festeggiato dalla S.G.R. con un guadagno cospicuo.
CAPALDO. Mi sembra che lei ponga il problema del credito MAF, sul quale credo sia il caso di soffermarsi. Esso risale agli anni 50-60 e riguarda gli ammassi. Il Ministero dell’Agricoltura approvava i rendiconti con dei decreti e scriveva sempre sui rendiconti "riserva di provvedere alla liquidazione del credito all’atto dello stanziamento nel bilancio statale dei fondi occorrenti per i pagamenti". Praticamente il tutto era subordinato all’iscrizione dello stanziamento nel bilancio dello Stato. Quando viene fatta l’operazione, noi riscontriamo quanto segue: nella stima di 3.939 miliardi il credito MAF è iscritto per 315 miliardi, cioè per l’8 per cento e quindi non meritava una considerazione autonoma in quel contesto. La cifra di 315 miliardi risulta dalla seguente valutazione: la gran parte di questi crediti è in interessi, perché si aggiungono interessi ad interessi. Chi esegue la stima ritiene che questo credito possa essere incassato di lì a tre anni: quindi fa una attualizzazione valutando il credito non più 420 miliardi. Con una svalutazione all'11 per cento ricava appunto la cifra di 315 miliardi. Poiché si tratta di una partita che tutto sommato incide per l'8 per cento non ha bisogno di una autonoma considerazione e quindi viene valutata nel suo insieme. Quando dico che andava svalutato intorno al 20-.22 per cento l'attivo, è chiaro che qualcosa andava svalutato di più e qualcosa di meno, ma certamente era una operazione che andava svalutata pesantemente. Qual era il contesto di questo credito in quel momento? Gli stanziamenti, nel bilancio dello Stato non erano mai stati fatti in passato. Quindi nel 1992, quando noi facciamo la proposta, il credito appare assolutamente inesigibile. Personalmente, entrai anche in possesso di un’ipotesi di disegno di legge che prevedeva il rimborso del debito per gli ammassi nei confronti della Fedit, con titoli di Stato trentennali senza interessi. Non ci voleva molto a capire che in questo modo l'incasso effettivo sarebbe stato di qualche punto percentuale; appariva quindi evidente che questo credito era di incertissima esazione.
Noi non facemmo quindi una valutazione particolare, e del resto nel 1992 appariva doverosa una particolarissima cautela nella valutazione di questo credito. Non avevamo nessun segno che lo Stato pagasse questo debito. Occorreva una legge e questa legge non era mai stata fatta; si parlava soltanto di un’ipotesi di disegno di legge.
Del resto, ho detto anche al magistrato di Perugia che, per valutare questo credito, la procedura migliore sarebbe stata quella di chiamare una o più società di factoring e chiedere se erano disponibili a comprarlo e in questo caso quanto erano disposte a pagarlo. Occorre passare da una generica valutazione ad un prezzo da pagare. Si trattava di un credito che risaliva al 1962, quindi a trent’anni anni prima, che poteva essere incassato soltanto a seguito di una legge dello Stato che non esisteva. Tutti, peraltro, ricordiamo che la situazione dei conti pubblici nel 1992 era di una tensione finanziaria impressionante, che comportò la svalutazione della lira. Avemmo qualche contatto con il Ministro del Tesoro dell’epoca e comprendemmo che non era neppure lontanamente immaginabile che vi potesse essere una legge per rimborsare questo debito e, poiché quest’ultimo, come ho già detto, incideva per l’8 per cento, non demmo un significato particolare alla cosa.
Qui è opportuno ricordare la posizione della Procura di Perugia. Essa oggi valuta questo credito, nelle contestazioni, circa 1.100 miliardi perché all'importo originario aggiunge gli interessi al tasso previsto di 4,40 punti superiore al tasso ufficiale di sconto, con capitalizzazione composta. E qui francamente c'è davvero una stranezza, perché un credito che nel 1991 lo stesso commissario Fedit valuta 315 miliardi, a distanza di 7 anni, dopo aver constatato la sostanziale impossibilità di incassarlo, diventa più del triplo (1.066 miliardi per l'esattezza). Questo è il quadro.
PRESIDENTE. Quindi il credito non era nè certo nè esigibile.
CAPALDO. Era niente; doveva essere iscritto nel bilancio dello Stato ed era necessaria una legge. Non dimentichiamo che erano passati 30 anni e si poteva mai immaginare che lo Stato pagasse nel 1992, in un momento come quello? Su questo punto devo fare una considerazione. In fondo, se andiamo a vedere, il vero divario di valori tra la Procura e noi, è proprio qui cioè sui crediti verso lo Stato e sui crediti verso consorzi in liquidazione coatta amministrativa, che noi riteniamo che non valgano praticamente nulla, visto che non si riesce da anni ad incassarli. Vorrei richiamare la vostra attenzione su un punto: dopo aver dato a questo credito il valore di 1.066 miliardi - e se vogliamo fare un discorso ex ante non possiamo attualizzare ad oggi - dopo aver contestato che questo credito vale 1.066 miliardi e che quindi la società si è appropriata di questi soldi, lo stesso pubblico Ministero però quanto presenta la situazione, dichiara: "le modalità astrattamente praticabili per affrontare la crisi Fedit erano, oltre la liquidazione volontaria la liquidazione coatta amministrativa ed il concordato preventivo." Dichiara inoltre: "Risulta infatti che non era praticabile alcun altra forma di finanziamento da parte dello Stato, né era possibile che lo Stato pagasse a Fedit i debiti per gli ammassi, in quanto la situazione dei conti pubblici da un lato e l’aperta ostilità parlamentare dall’altro del PSI, alleato di Governo all’epoca della presidenza Andreotti, non lo avrebbero consentito".
Come si vede, la Procura di Perugia per un verso afferma che questo credito vale 1.066 miliardi e, per altro verso, riconosce che lo stesso credito nel 1991 era da ritenere praticamente inesigibile. E noi avremmo dovuto valutarlo di più?
CARUSO Antonino. Signor Presidente vorrei porre un’altra domanda.
PRESIDENTE. Senatore Caruso, vorrei far intervenire altri che non ne hanno avuto finora la possibilità. Poi le darò nuovamente la parola.
CARUSO Antonino. Signor Presidente, è un modo per interrompere il mio ragionamento. Allora rinuncio alle altre domande e prendo atto che lei mi toglie la parola.
BUCCI. Professor Capaldo, nella memoria presentata dallo studio dell’avvocato Zaganelli, suo difensore a Perugia, si fa un accenno all’attendibilità della valutazione patrimoniale fatta dai periti nominati dal tribunale. Si cita il caso della Fedital e della Polenghi lombardo. Ho avuto modo di seguire la vicenda e i fatti successivi che da essa sono emersi e posso dire che, a fronte di una valutazione dei periti di 106 miliardi, la vendita venne effettuata per 25 miliardi. Dagli addetti ai lavori fu considerata una vendita "blindata" su un nome preciso. Non si trattò di una vendita trasparente, ma venne considerata un’operazione in cui l’acquirente era "blindato" e poteva essere solo quello.
Ora mi domando se le alienazioni degli altri beni patrimoniali vennero effettuate sempre con il medesimo criterio almeno, per quello che riguarda le polemiche seguite alla vendita della Polenghi lombardo, nel senso che avevano già in pectore un nome oppure ci fu veramente un’asta aperta.
CAPALDO. Questa è ancora una stranezza di tutta questa vicenda perché la vendita della Polenghi lombardo è assolutamente estranea alla S.G.R. Credo che la vendita della Polenghi lombardo sia avvenuta a fine 1991, mentre S.G.R. nasce nel 1993. Quindi S.G.R. è completamente estranea alla vicenda.
Dagli stessi documenti della Procura risulta che la vendita della Fedital è stata fatta anteriormente anche alla stessa ideazione della S.G.R..
Per quanto riguarda le vendite effettuate da S.G.R., ripeto che esse sono state condotte con procedure altamente competitive.
In materia di partecipazioni, la vendita più importante è quella che ha riguardato la compagnia di assicurazioni Fata, che venne venduta ad un prezzo addirittura superiore a quello di stima, in risposta ad un'OPA lanciata dall’Istituto nazionale delle assicurazioni.
Sempre con procedure altamente competitive sono state vendute la Banca di Credito di Ferrara, ad un prezzo di gran lunga superiore alla stessa stima dei periti del tribunale, e la Massalombarda, con l’assistenza di Mediobanca.
Tutto il resto è stato venduto sempre con procedure di questo tipo: invito ad offrire, confronti ed aste. Se dovessi esprimere una valutazione direi che la vendita di Polenghi dimostra proprio come certi cespiti non possano essere venduti con procedure di tipo giudiziario. Mentre con una procedura di tipo giudiziario può essere venduto un immobile, in quanto è relativamente facile indire un’asta per un immobile, un’asta su un pacchetto azionario non è proponibile perché il compratore vuole le cosiddette garanzie d’uso (che il bilancio sia corretto e attendibile, che non ci siano sopravvenienze passive ecc.) che un’amministrazione concordataria non è in genere in grado di dare.
Ciò dimostra proprio l’utilità dell’operazione che abbiamo compiuto con la S.G.R. perché attraverso la stessa si sono potute utilizzare procedure che l’amministrazione concordataria non avrebbe potuto usare, non potendo fornire determinate garanzie.
Comunque di come sia stata venduta la Polenghi non so assolutamente niente.
BUCCI. Vorrei avere dal professor Capaldo un altro chiarimento. La S.G.R. venne costituita con soci che vantavano crediti verso la Federconsorzi.
Vennero effettuate indagini circa la veridicità dei crediti vantati dai singoli appartenenti o vennero in toto assunti come veritieri quelli che i soci della S.G.R. vantavano nei riguardi della Federconsorzi?
CAPALDO. E’ chiaro che, per aver fatto un concordato preventivo, c’è stata tutta una procedura di selezione e di verifica dei crediti. E’ evidente che, come accade in tutti in concordati preventivi, si deve fare lo stato passivo e quest’ultimo viene fatto dalla procedura concordataria che controlla la veridicità di tutti i crediti e li classifica a seconda che siano privilegiati o no.
SANZA. Professor Capaldo, lei suggerì a Goria di non commissariare la Federconsorzi e ci ha esposto le ragioni che l’hanno indotta a dare tale suggerimento. Ma è noto che la situazione della Federconsorzi era già fortemente squilibrata dal punto di vista economico e finanziario. Goria comunque si determinò a fare questo commissariamento. È lecito supporre che il commissariamento venne intravisto come una scorciatoia per salvare il salvabile e venire incontro ad alcuni creditori?
CAPALDO. Non so che dire. Sconsigliai al ministro Goria di procedere al commissariamento perché, come tutti gli interventi di questo tipo, è uno strumento che deve essere utilizzato per un fine ben preciso. Inoltre, non comprendo proprio per quale motivo, in quel caso specifico si dovesse intervenire con il commissariamento e, d’altra parte, non ho capito - né credo è mai stato esplicitato - se il motivo di tale commissariamento riguardasse il funzionamento degli organi o altro.
Ripeto, comunque, che sconsigliai il Ministro dal prendere quella decisione, come immagino avrebbe fatto ogni persona con qualche esperienza in materia. La verità è che il commissariamento lascia i problemi esattamente come stanno, anzi se mai li aggrava. Basti pensare, ad esempio, all'effetto che può avere l'arrivo di soggetti estranei in un'amministrazione; ne conseguirà ovviamente l'allarme dei creditori e quindi il determinarsi di una situazione di fibrillazione difficilmente governabile che, qualora non esista un disegno preordinato, tende a deteriorarsi rapidamente. Proprio queste considerazioni mi inducevano a suggerire all’onorevole Goria di essere cauto riguardo ad una scelta come quella del commissariamento.
Ora, ovviamente non so per quale ragione il ministro Goria abbia invece successivamente deciso di procedere al commissariamento, né sono in grado di fornire delle spiegazioni razionali a questo riguardo. Posso soltanto dire che il Ministro era molto preoccupato per il rischio che la situazione potesse precipitare evolvendo in una vera e propria insolvenza della Federconsorzi.
Ripeto, per quanto mi riguarda non conosco altre ragioni in merito alla scelta operata dal Ministro; è possibile che ritenesse che il commissariamento avrebbe reso più controllabile la situazione, considerata anche la dimensione dell’azienda; oppure immaginava che il Governo potesse avere la forza per imporre una soluzione alle banche, ma ovviamente si tratta solo di ipotesi.
Sono sicuro, però, che il ministro Goria, procedendo al commissariamento, pensasse di attuare una iniziativa positiva, certamente non si è trattato di una scelta gratuita.
SANZA. A suo avviso, parallelamente al commissariamento, il Ministro ipotizzava la nascita della S.G.R.? Intendo dire vi era un raccordo tra queste iniziative?
CAPALDO. No, il Ministro non poteva in alcun modo raccordarle, perché nel momento in cui si procedette al commissariamento della Federconsorzi, si provvide anche allo scioglimento del consiglio di amministrazione i cui componenti vennero sostituiti con altri soggetti che avrebbero dovuto gestire la situazione, anche perché, in teoria, le sorti della Federconsorzi potevano anche essere riprese per il futuro. Quindi, l’ipotesi della costituzione della S.G.R. non era nella testa di nessuno: né in quella mia, né - a maggior ragione - in quella di altri.
In ogni caso, desidero ribadire che la S.G.R. è stata concepita come strumento per vendere al meglio determinati beni, non era quindi finalizzata alla ricostituzione della Federconsorzi. Pertanto, non c’era alcuna connessione tra il commissariamento e la costituzione della S.G.R. e, in tal senso, vanno valutati con attenzione anche i tempi in cui si sono verificati questi fatti, in quanto il commissariamento avvenne nel maggio 1991 e la S.G.R. fu formalmente costituita nell’aprile 1993, cioè due anni dopo.
Ribadisco che, secondo me, quando il ministro Goria, commissariò la Federconsorzi, pensava che la situazione potesse evolversi in maniera diversa da una mera liquidazione dei beni.
SANZA. Desidero rivolgerle una brevissima domanda che riguarda l’iniziativa della Procura della Repubblica.
Da quanto fa intendere il procuratore, dalla vendita di alcuni beni dell’ex Fedit la S.G.R. sembrerebbe aver conseguito degli utili cospicui, mentre lei, professor Capaldo, in alcuni passaggi del suo intervento, ha affermato che ciò non è vero.
Potrebbe fornire al riguardo qualche ulteriore chiarimento? Inoltre, se l’ipotesi del procuratore fosse vera, su quali beni questi utili potrebbero essere stati conseguiti?
PRESIDENTE. Collegandomi alla domanda testé posta dal collega Sanza, desidero al riguardo aggiungere che la requisitoria della Procura di Perugia effettua due riferimenti concreti citando due immobili: palazzo Rospigliosi e la tenuta "Il Pino".
CAPALDO. Signor Presidente, a questo riguardo ribadisco quanto ho già detto precedentemente: a mio avviso, nel contesto di questa operazione, dal punto di vista economico non ha senso parlare di utili rispetto a singole vendite o singole operazioni, come del resto nella fattispecie non ha, analogamente, alcun significato parlare di perdite. La scomposizione della somma di 2.150 miliardi è stata effettuata a meri fini fiscali e quindi non ha significato economico; pertanto, possiamo dare un giudizio solo sul complesso dell’operazione, cioè soltanto sul costo della massa dei beni e sui ricavi conseguiti dalla vendita degli stessi. Sotto questo aspetto, insisto, ogni correlazione tra il costo imputato ad un cespite e il relativo ricavo è priva di significato.
Pertanto, non è il caso di attardarci sulle singole operazioni perché ovviamente se ne potrebbero enucleare anche alcune rispetto alle quali si sono subite perdite vistosissime; torno a ripetere che gli elementi fondamentali sono rappresentati dalla totalità dei beni, dal costo sostenuto e, infine, dal complesso dei ricavi. Ebbene, da questo punto di vista posso anticiparvi - ma gli amministratori della S.G.R. potranno fornire ovviamente maggiori dettagli - che tutto lascia intravedere che, quando da qui a qualche anno, la S.G.R. chiuderà i battenti, ci si accorgerà che i conti sono in pareggio.
SANZA. Lei ricorda la vendita di palazzo Rospigliosi?
CAPALDO. Il caso di palazzo Rospigliosi è proprio quello cui ho fatto riferimento precedentemente quando ho dichiarato che immobili, per complessivi 6.000 metri quadri netti, erano stati valutati 200 miliardi a fitto bloccato, in ragione di 35 milioni al metro quadro, che diventano 50 milioni se consideriamo la differenza che sempre corre tra il prezzo di un immobile libero e quello di uno occupato, oltretutto con un reddito dell’1 per mille.
Il palazzo Rospigliosi è stato venduto successivamente al periodo della mia presidenza, durante la quale ne era comunque stata avviata la vendita attraverso una quantità di annunci sui giornali e di lettere inviate ai vari soggetti che potevano essere interessati (enti privati e pubblici, ambasciate ecc.); credo che esista agli atti anche un dossier riguardante tutte le iniziative prese dalla S.G.R. per presentare questo immobile al mercato. Credo che palazzo Rospigliosi sia stato venduto ad un prezzo intorno ai 70 miliardi; si trattava - come ho già detto - di 6.000 metri quadri e quindi ritengo che il prezzo sia altissimo, più che congruo. Quando ero ancora presidente arrivò un’offerta addirittura di 19 miliardi, che ovviamente non fu presa in considerazione, e so che ne pervenne una seconda di 25 miliardi da parte dei soggetti che possedevano già una parte del palazzo.
Al riguardo, posso comunque assicurare che per la vendita di palazzo Rospigliosi si seguì la stessa procedura utilizzata anche per gli altri immobili e cioè annunci sui giornali, acquisizione di manifestazioni di interesse, e sollecitazioni al mercato che venivano effettuate in mille modi; se non ricordo male il palazzo venne mostrato anche ad alcuni esponenti della Corte costituzionale, i cui uffici sono situati proprio nei pressi del palazzo.
Il fatto poi che l’immobile sia stato venduto soltanto nel 1995, nonostante la procedura di vendita fosse iniziata molto tempo prima, dimostra quanto in realtà essa sia stata laboriosa. A mio parere, la vendita di questo immobile è stata sicuramente positiva rispetto al valore effettivo del cespite e, comunque, torno a ribadire che è stata realizzata successivamente alla mia presidenza.
SANZA. Professor Capaldo, in ogni caso palazzo Rospigliosi è stato venduto ad un terzo rispetto al valore ipotizzato.
CAPALDO. Caro onorevole, si possono ipotizzare tante cose, si può anche credere di poter vendere a 50 milioni al metro quadro e poi riuscire in realtà a farlo solo a 17. Ora, se come risulta palazzo Rospigliosi è stato ceduto sulla base di oltre 10 milioni al metro quadro, posso soltanto ribadire che è stato un risultato estremamente positivo.
Torno a ribadire, comunque, che la procedura utilizzata in questa occasione è la stessa utilizzata in altre vendite e c’è un fascicolo che lo prova in cui viene illustrato tutto l’iter percorso per offrire e presentare al mercato questo bene.
DE CAROLIS. Signor Presidente, rendendomi conto delle numerose argomentazioni affrontate fino ad ora, sarò sintetico. Tuttavia desidero fare alcune osservazioni.
In data 17 maggio 1991 - e credo che questo sia un elemento importante di cui tener conto in quest’audizione - il ministro dell’agricoltura Goria commissariava la Federconsorzi, all’epoca pesantemente indebitata, ma non insolvente. Ricordo che allora l’onorevole Bruni, un parlamentare molto vicino alla Coldiretti, era presidente della Commissione agricoltura della Camera.
All’epoca, nelle Aule parlamentari circolavano alcune voci in base alle quali il ministro Goria intendeva con il commissariamento della Federconsorzi vendicarsi del trattamento che la Democrazia cristiana gli aveva riservato nel periodo in cui, come Presidente del Consiglio, aveva come solo avversario all’interno del Parlamento il partito che lo aveva eletto. Non si tratta di un particolare secondario, dal momento che tutto l’impianto accusatorio della Procura della Repubblica di Perugia fa riferimento al suo colloquio con il Ministro, durante il quale lei sostiene - come ha ribadito - di essere stato nettamente contrario al commissariamento. Sono convinto, per le ragioni che ho espresso poc’anzi, della sincerità di questa sua affermazione. Tuttavia, come membri di questa Commissione, abbiamo l’obbligo di approfondire tale aspetto in relazione alle dichiarazioni contenute nel testo del verbale del direttore generale della Fedit, Silvio Pellizzoni. In esso si dice che egli abbia riferito alla Procura della Repubblica di Perugia che sarebbe stato proprio lei a suggerire il commissariamento. Sono andato a leggermi l’interrogatorio di Pellizzoni e mi sembra che egli dica esattamente il contrario. Questo è il primo particolare che intendo sottolineare.
Vorrei sapere - e questo è il secondo aspetto che mi interessa approfondire - chi stabilì il prezzo per l’acquisto in blocco da parte della S.G.R. dei beni della Federconsorzi e con quali criteri esso fu determinato. Nel corso dell’audizione del pubblico ministero Dario Razzi, posi il problema della valutazione del palazzo vicino a Piazza Venezia, che sapevo essere stata di 35 milioni al metro quadro. E’ vero che in quel momento il mercato immobiliare registrava costi piuttosto elevati, ma chi voleva acquistare un immobile tra Piazza Ungheria e il Pantheon doveva sopportare un costo compreso tra i 10 e gli 11 milioni al metro quadro. Non ho mai sentito parlare di 35 milioni al metro quadro e quindi le chiedo di approfondire questo aspetto.
CAPALDO. Sulla prima domanda, relativa al ministro Goria, ritengo di non dover rispondere, trattandosi di valutazioni personali.
Sulla seconda, relativa alla determinazione del prezzo, vi ho già accennato rispondendo al senatore Antonino Caruso. Il prezzo fu determinato dai promotori della S.G.R.. La costituzione della società, infatti, pur essendo una mia idea, venne fatta propria dall’insieme di soggetti che ne diventarono poi parte integrante.
Questi signori, con l’assistenza di alcuni tecnici e a seguito di un dibattito piuttosto vivace - tant’è che alcuni alla fine decisero di non partecipare ritenendo il prezzo troppo elevato - stabilirono, con le modalità che vi ho illustrato poc’anzi, il prezzo finale. Nella sua determinazione tuttavia si tenne conto anche di un altro parametro: la somma che, nelle procedure di questo tipo, statisticamente, si riesce a distribuire ai creditori. Sul piano statistico abbiamo riscontrato l’esistenza di un certo rapporto tra le valutazioni fatte in sede di concordato preventivo e le somme effettivamente versate ai creditori, che peraltro andrebbero anche attualizzate soprattutto se si versano 4 o 5 anni dopo l’inizio dell’operazione. Sulla base di queste analisi statistiche emergevano, a seconda dei casi, cifre attorno al 30-35 o al massimo al 40 per cento del valore stimato. Noi, anche a seguito di un procedimento piuttosto analitico, ci siamo collocati sul 55 per cento del valore lordo attribuito ai beni Fedit dal commissario giudiziale. Tale percentuale - lo ribadisco - denota di per sé l'assenza di qualsiasi finalità speculativa.
Sul documento che, ad inizio di seduta, ho chiesto di distribuire ai commissari sono riassunti i termini della questione. La S.G.R. non aveva finalità speculative, non intendeva guadagnare dall’operazione, perché se effettivamente avesse voluto farlo avrebbe dovuto offrire un prezzo ben inferiore a 2.150 miliardi.
In proposito, voglio ricordare che, tra i tanti documenti inviati alla Procura della Repubblica di Perugia per indurla a tener conto delle nostre ragioni, c’è anche una perizia, un parere pro veritate, che facemmo predisporre ad un professore ordinario di economia aziendale di Pisa, presidente dell’Accademia Italiana di economia aziendale. Non credo che il pubblico ministero di Perugia lo abbia letto. Vi riferisco solo le conclusioni di tale perizia. "Alla luce delle risultanze della presente indagine, che dimostrano, da un lato, l’infondatezza delle stime dei periti e, dall’altro, l’oggettiva difficoltà a esitare "a valori di liquidazione" il patrimonio della ex Fedit, nonostante la grande rilevanza pubblica data alle procedure di liquidazione, improntate a garantire la massima trasparenza, efficacia e competitività, è possibile pertanto affermare che il prezzo di 2.150 miliardi di lire, pagato da S.G.R., può ritenersi non soltanto congruo e quindi non vile, ma addirittura esorbitante alla luce delle previsioni che oggi si possono fare in merito ai realizzi effettuati …..".
Quindi, da un punto di vista meramente economico, questo prezzo risulta più che congruo, anzi superiore a quello che si sarebbe potuto pagare sulla base di scelte improntate a mera logica economica, dal momento che il rischio andava considerato in maniera ben diversa. Il taglio dell’operazione, che non intendeva essere di tipo speculativo, è in un certo senso consortile. Il vantaggio dell’operazione non era tanto negli utili che essa avrebbe potuto generare a favore dei soci S.G.R., ma nello strumento che si adottava, finalizzato a garantire vendite spedite. Lo strumento avrebbe dovuto consentire alla procedura concordataria di ottenere rapidamente, nell’arco di 18 mesi, il netto ricavo derivante dall’alienazione dei beni per redistribuirlo ai creditori e quindi chiudere la vicenda. Il vantaggio, per tutti i soci, doveva consistere semplicemente nel vedersi rimborsare il capitale sociale senza ricevere nulla a titolo di utile o compenso per il rischio. I soci S.G.R., quindi, non hanno tratto né volevano trarre alcun vantaggio da questa operazione, tant’è che i promotori hanno premuto affinché tutti potessero entrare nella società, creando le condizioni più favorevoli perché ciò avvenisse. A tal fine, anzi, fu previsto che nei 12 mesi successivi alla costituzione, la società restasse "aperta" a tutti i creditori che non vi avevano ancora aderito, ai quali veniva consentito di entrare alle medesime condizioni dei soci iniziali. Quindi è chiarissima l’assenza di ogni intento speculativo, perché la S.G.R. aveva come obiettivo quello di consentire una procedura di realizzo la più efficace possibile, nell’interesse di tutti. In questo senso il prezzo è stato determinato nei limiti del pareggio di bilancio. E i fatti sembrerebbero darci assolutamente ragione. Noi volevamo quello; quindi si spiega anche una perizia tecnica che afferma, secondo un’analisi in termini di pura logica economica, che il prezzo andava oltre la congruità ed effettivamente così era se leggiamo l’operazione come operazione economica.
PRESIDENTE. Su questo la Procura di Perugia cita anche una sorta di disparità di trattamento sostenendo, a pagina 33 della richiesta di rinvio a giudizio, che alcune società del gruppo ENI non aderirono al piano Capaldo perché poco chiaro. Inoltre ciò risulterebbe dalla dichiarazione del dottor Guido Rosa. La Procura di Perugia sostiene, rispetto alla par condicio, non solo questi due argomenti, ma anche che enti di Stato creditori della Federconsorzi non potevano far parte di una società di capitali come la S.G.R..
CAPALDO. Ciò è assolutamente insostenibile perché l’ENI a quell’epoca, pur non essendo una società per azioni, aveva come funzione proprio la gestione di partecipazioni, aveva numerose partecipazioni. Peraltro creditore della Federconsorzi era l’Enichem Agricoltura, una società per azioni che aveva pertanto pieno titolo per partecipare a S.G.R..
Posso invece dirvi, purtroppo non c’è più chi può confermarlo, che proprio il Presidente dell’ENI mi disse che i suoi tecnici sconsigliavano di entrare. Quindi uno dei creditori che ritenne alta la cifra offerta dalla S.G.R. fu proprio l'ENI che non volle entrare in società, non perché non potesse entrare. L'ENI poteva assumere una partecipazione.
PRESIDENTE. Vi era la sconvenienza del piano Capaldo.
CAPALDO. Torno al discorso che è stato fatto con il senatore D’Alì, sull’impegno e sul prezzo. Nel momento in cui si sottoscriveva quella proposta ci si impegnava a pagare 2.150 miliardi. Ricordo che alcuni creditori dicevano che oramai quello che era perso era perso e non era il caso di imbarcarsi in iniziative che potevano addirittura far perdere di più. Nessuno ha vissuto la vicenda come un affare, altrimenti sarebbero entrati tutti.
Noi abbiamo consentito di entrare - lo ribadisco - anche dopo il primo anno di costituzione; abbiamo fissato un capitale molto basso proprio per consentire a tutti di entrare e chi non lo ha fatto è perché non aveva convenienza. Ora consentitemi di rilevare che da un lato la Procura di Perugia ha ritenuto di prendere questa iniziativa, dall'altro non pare che i creditori Fedit abbiano mai protestato. Non mi risulta che vi sia stato un malcontento dei creditori che si sia poi in qualche modo concretizzato; non mi risulta nulla e del resto l’operazione è stata approvata dal comitato dei creditori.
VENETO Gaetano. Desidero porre alcune domande al professor Capaldo. La prima è la seguente. Dal 1989-90, certamente dal 1991, fino al 1993 lei è stato presidente del Banco di Santo Spirito poi Banca di Roma. Creditore per circa 5.000 miliardi (a fronte di una garanzia di 36 miliardi), come risulta dai verbali acquisiti della Federconsorzi, era il sistema bancario. Se ben ricordo lei faceva parte anche del consiglio dell’ABI.
CAPALDO. Si, anche se non partecipavo mai.
VENETO Gaetano. E’ mai possibile che fino al 1992, l’ABI non abbia mai fatto un tavolo dei creditori? A pagina 2 del suo verbale di interrogatorio del 9 aprile 1996 lei afferma: "A cavallo tra il 1991 e il 1992 venne effettuata la fusione tra Cassa di Risparmio di Roma, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma, che condusse alla nascita della Banca di Roma, della quale assunsi la presidenza. La Banca di Roma era uno dei creditori della Fedit, all’epoca già in concordato preventivo. Il credito della Banca di Roma mi pare fosse di oltre 100 miliardi. Dalla stampa dell’epoca si capiva che il commissariamento aveva creato una situazione di ingovernabilità, tanto che in Parlamento il ministro, in data 4 giugno 1991, esponeva le difficoltà e proponeva una sorta di accordo stragiudiziale di natura liquidatoria con i creditori. Tale proposta viene articolata dal ministro nella lettera del 13 giugno 1991 al presidente dell’ABI. In questa fase io non ebbi alcun ruolo, in quanto l’interlocutore del ministro era l’ABI"; tuttavia lei era nel consiglio direttivo.
Vorrei sapere se e come mai l’ABI, a fronte di un’esposizione del sistema bancario di 5.000 miliardi, non abbia mai ritenuto di creare un tavolo di creditori come sempre si fa; la Vigilanza di Bankitalia invita sempre ad un tavolo i creditori. L’ABI presenta una proposta al Ministro dell’agricoltura e non ritiene di fare un tavolo dei creditori, mentre cammin facendo, nasce la cosiddetta proposta Capaldo e poi la S.G.R..
Non si è mai parlato nell’ABI di questo? Non ci si è mai posti il problema, non se ne è mai discusso, non si è mai posta la questione del rapporto tra garanzie (36 miliardi) ed esposizione (5.000 miliardi)?
CAPALDO. E’ chiaro che il problema si pose, ma quando la crisi era esplosa. Se mai il problema va spostato indietro: quando questi finanziamenti sono stati concessi alla Federconsorzi e su quali basi le varie banche li hanno concessi. Io stesso ho espresso prima un’opinione al riguardo: in fondo, la Federconsorzi veniva ritenuta un soggetto parapubblico e quindi "affidabile" in campo finanziario. Di qui il fatto che veniva largamente finanziata dalle banche, senza che ci si interrogasse molto sulla potenzialità del soggetto, anche in termini di rimborso. Era diffuso questo convincimento.
Farò un esempio; un’altra vicenda che mi ha colpito molto è stata la vicenda Ferruzzi. Anche lì fino a 10 giorni prima che esplodesse il caso, le banche si contendevano il cliente. All’improvviso esplode il caso ed un caso, mi pare, da 30.000 miliardi di debiti. Queste sono, diciamolo pure, le inefficienze del sistema, nel senso che vi è un generale convincimento che il cliente sia solido e tutte le banche lo finanziano, se lo contendono; così come - a volte - accade il contrario.....
VENETO Gaetano. Ma le banche non hanno soggetti capaci di indagare anche in ordine a situazioni di questo tipo?
CAPALDO. ....così come abbiamo tutti esperienza di soggetti che, al contrario, sono assolutamente affidabili eppure non riescono a trovare i soldi. È difficile in questa sede stabilire perché il sistema bancario, ad un certo punto, si sia trovato così esposto nei confronti della Federconsorzi. Comunque, ad un certo punto ciò è accaduto.
Lei parlava del tavolo di confronto presso l’ABI. Quest’ultima se ne è occupata molto, non tanto a livello di consiglio di amministrazione e comitato esecutivo, quanto per promuovere incontri tecnici tra le banche. Quindi la questione non riguarda tanto gli organi deliberanti e statutari quanto l’apparato tecnico amministrativo che, in situazioni di grave dissesto come questa, si mette in moto per convocare i rappresentanti delle varie banche e studiare una soluzione.
In questo senso sarà stata invitata certamente anche la Banca di Roma, o meglio i funzionari dell’allora Banco di Santo Spirito, Cassa di Risparmio di Roma e Banco di Roma i quali avranno contribuito, insieme ai dirigenti delle altre banche, ad immaginare una soluzione.
VENETO Gaetano. Prendo atto quindi che l’ABI, di fronte ad un’esposizione debitoria di 5.000 miliardi, non ha ritenuto di coinvolgere politicamente i suoi organi istituzionali, ma ha solamente interessato i suoi tecnici. Non sto imputando a lei questa responsabilità, prendo solo atto di questo.
Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura presso il tribunale di Perugia - siamo sempre nel 1991 - , si parla di un’operazione a dir poco ardita, senza nessuna rete di protezione, della Caboto & Partners nell’acquisizione di crediti bancari. La Caboto & Partners era socia della Banca di Roma insieme alla Swiss Bank Corporation che sembra abbia svolto solo un ruolo tecnico nell’operazione, mentre direttamente impegnata sarebbe stata la Banca di Roma.
L’operazione riguardante la Fedital, come è noto, ha attirato l’attenzione di tutti, anche della Procura di Perugia, in quanto la Fedital, insieme alla Agrifactoring, è la società che aveva il maggior fatturato ed il bilancio ordinario attivo.
Per quanto concerne l’Agrifactoring, volevo sapere se lei, all’epoca, avesse notizie di quest’operazione e in che modo questa si sia conclusa, anche se giustamente il tribunale di Roma parla di un’attività parallela.
CAPALDO. Il tribunale di Roma o di Perugia?
VENETO Gaetano. Di Perugia.
Inoltre lei stesso ha sorriso ascoltando la famosa dichiarazione del dottor Cocco: "Non si muove foglia che Capaldo non voglia", concernente appunto la gestione della società Agrifactoring.
CAPALDO. Quell’affermazione l’ho riferita alla Federconsorzi.
VENETO Gaetano. A proposito dell’Agrifactoring c’è una dichiarazione del dottor Cocco che afferma esserci un parere del professor Capaldo riguardo a questa società.
CAPALDO. Non ho mai dato pareri professionali.
VENETO Gaetano. E subito dopo il dottor Cocco aggiunge, in senso più ampio: "Non si muove foglia che Capaldo non voglia".
CAPALDO. Io l’avevo interpretata nel senso che nella Federconsorzi non si muoveva foglia senza la volontà di Capaldo, ma Agrifactoring è una società con cui non ho avuto rapporti.
VENETO Gaetano. Invece si parla di un parere del professor Capaldo.
CAPALDO. Ripeto, non ho mai dato pareri.
PRESIDENTE. È la Commissione d’indagine governativa, non il tribunale di Perugia. Quello a cui lei fa riferimento è contenuto nella relazione ministeriale.
VENETO Gaetano. E poi ripeto il discorso viene allargato alla sua grande influenza, fino a bloccare le foglie che si muovevano in Federconsorzi.
CAPALDO. Tanta influenza ho avuto che nessuno poi ha fatto nulla di quello che ho suggerito! Infatti il mio suggerimento era quello di accorpare i consorzi su base regionale e di ridurre la struttura nel senso di alleggerirne gli investimenti e rimborsare i debiti, insomma tutte quelle cose che si fanno in un piano di riorganizzazione d'impresa.
Per quanto riguarda la partecipazione a cui prima lei faceva riferimento, mi sembra che la Banca di Roma fosse socia della Cragnotti & Partners con il 5 per cento, insieme ad altre banche. Comunque questo è possibile controllarlo, ma credo che in quella finanziaria ci siano diversi soggetti tra cui la Banca di Roma con una partecipazione che non dovrebbe andare oltre il 5 per cento.
VENETO Gaetano. All’epoca della sua presidenza alla Banca di Roma, lei assunse anche la presidenza della S.G.R., che è durata circa un anno e mezzo. Poi, come lei afferma, questa fatica è passata al professor Carbonetti. Lei ha anche affermato che decise di affidare all’avvocato Casella, molto esperto in questo campo, l’incarico di stesura di una proposta anche e soprattutto perché, operando su Milano, aveva contatti con il centro del sistema economico e finanziario. Tra l’altro, tra i creditori bancari della Federconsorzi, l’allora Banco di Roma non risultava essere uno dei più forti. Vi erano infatti banche molto più esposte, come ad esempio la Cariplo.
Come mai si ritenne di nominare lei Presidente quando proprio l’aver affidato l’incarico a Casella sembrava dover portare ad una nomina che gravitasse nell’orbita della piazza di Milano, che sembrava più logica e che sicuramente avrebbe reso più agevole il lavoro?
CAPALDO. Intanto la Banca di Roma era il secondo creditore proprio perché nel frattempo si erano fusi i tre istituti: Cassa di Risparmio di Roma, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma. Credo che il Banco di Napoli fosse il primo creditore.
VENETO Gaetano. Di quand’è la fusione?
CAPALDO. C’è una prima fusione nel febbraio ’92 tra Cassa di Risparmio di Roma e Banco di Santo Spirito, mi sembra con effetto dal 1° marzo 1992. L’operazione si allarga al Banco di Roma il 1° agosto 1992 e nasce la Banca di Roma.
Per quanto riguarda la questione della presidenza, non credo che si facesse a gara per ricoprire tale ruolo. Poiché ero stato io ad ideare questa operazione ed avevo, in qualche modo, coordinato tutta l’attività sottostante (anche se il ruolo operativo è sempre stato svolto dall’avvocato Casella) quando i soci hanno insistito per la mia nomina a presidente, non ho potuto dire di no. Dopo un anno, avendo nel frattempo avviato tutte le opportune procedure e considerato che l’operazione si svolgeva con molta serenità, ritenni che fosse giunto il momento di lasciare il mio incarico. Manifestai quindi questa mia intenzione e, a quel punto, mi fu richiesto un parere circa il mio successore; non ho alcuna difficoltà ad affermare che suggerii quello del professor Carbonetti, che era certamente la persona che in quell’anno e mezzo si era più interessata della vicenda, partecipando attivamente. E’ noto, infatti che nei consigli di amministrazione, c’è chi partecipa e chi lo fa solo di tanto in tanto, ebbene il professor Carbonetti era uno dei più attivi, si era impegnato e conosceva approfonditamente la materia e le sue problematiche e per queste ragioni ne indicai il nome.
VENETO Gaetano. Professor Capaldo, ha contezza dei pareri espressi dal professor Carbonetti agli organi della procedura?
CAPALDO. Non ricordo, o meglio mi sembra di ricordare che in epoca anteriore ai fatti di cui stavo riferendo, il professor Carbonetti aveva espresso un parere, ma debbo dire, che se anche lo avessi saputo con certezza, non mi sarebbe sembrata una situazione ostativa alla sua nomina.
VENETO Gaetano. Passiamo ora alla questione del dottor Pellizzoni che è stata già sfiorata precedentemente.
Dalla lettura dei documenti a nostra disposizione risulta che il dottor Pellizzoni ha affermato cose diverse da quelle dichiarate alla Procura e francamente non riusciamo a comprenderne il motivo. Al di là di questo, vi è un ulteriore problema e cioè che esisterebbe una certa discrasia tra le dichiarazioni del dottor Pellizzoni e le sue, in relazione ai contatti lato sensu "politici", mi riferisco cioè ai rapporti con l’onorevole Goria e con il senatore Andreotti. Tanto per esser più chiari, vorrei sapere se le risulta che vi siano stati contatti di carattere politico - anche ufficiali - con partiti o membri del Governo dell’epoca, nel periodo in cui era in gestazione la costituzione della S.G.R..
CAPALDO. Ebbene, posso senz’altro rispondere che non vi furono contatti ufficiali e deve essere chiaro che nessuno mi ha suggerito la creazione della S.G.R., la cui costituzione è un’idea che è nata in me spontaneamente per le ragioni che vi ho prima riferito. Tuttavia, non escludo che io possa anche aver incontrato il senatore Andreotti in qualche occasione e che egli mi abbia chiesto notizie circa le iniziative che si stavano portando avanti rispetto ad una vicenda che era frequentemente oggetto dell’interesse della stampa.
PRESIDENTE. L’originalità della sua proposta può essere stata in qualche modo influenzata dal suggerimento che il senatore Andreotti diede al dottor Roveraro?
CAPALDO. Come sempre accade in questi casi quando si creano problemi di queste dimensioni, tutti si sentono in dovere di dare il proprio parere, fornendo anche dei suggerimenti, e in tal senso, le proposte fiorite in quegli anni attorno alla crisi della Federconsorzi furono numerosissime.
Ricordo che effettivamente ebbi modo di incontrare il dottor Roveraro - presidente della Akros - che mi sottopose un certo piano - di cui non ricordo il nome - che però era del tutto diverso dal mio. A tale riguardo, desidero sottolineare che forse non è esatto definire il mio come un piano vero e proprio, anche se mi sarebbe piaciuto elaborare un programma di risanamento e di rilancio della Federconsorzi.
In ogni caso, torno a ripetere che, in quel periodo, incontrai tantissime persone ognuna delle quali aveva qualche proposta da avanzare e c’era un enorme interesse intorno a questa vicenda. Ribadisco, comunque, che il dottor Roveraro chiese di incontrarmi per illustrami il suo progetto ed io lo ascoltai come feci con altri. Tuttavia, debbo dire che, di tutti i progetti che si andavano elaborando in quella fase, nessuno riusciva veramente a coagulare, anche perché erano molto più impegnativi del progetto S.G.R.; si trattava infatti di piani che, in qualche modo, contemplavano anche l’ipotesi di una riorganizzazione della rete consortile, quindi di una operazione molto più complessa rispetto a quella prefigurata nel mio progetto.
In realtà, la mia idea, ridotta all’essenziale, proponeva la realizzazione di uno strumento finalizzato a vendere al meglio i beni della Federconsorzi; essa partiva dall’assunto che Fedit avesse concluso la sua attività e che quindi rimanesse soltanto una massa di beni da vendere nel miglior modo possibile per ridurre le perdite dei creditori. Come ho già detto, gli altri progetti, invece - anche quello del dottor Roveraro - assumevano, quantomeno in prospettiva, l’ipotesi di una ricostituzione di una rete consortile.
PRESIDENTE. Probabilmente questa ipotesi di riorganizzazione era in armonia con le intenzioni del ministro Goria, il quale voleva che si creasse una società di capitali tra le banche in cui far confluire i propri crediti in quota capitale per poi ripartire, non più con la Federconsorzi, ma con un organismo di altro tipo.
CAPALDO. Signor Presidente, le possibilità erano tante, ma le finalità erano diverse.
VENETO Gaetano. Sempre per quanto riguarda il dottor Roveraro vorrei avere una precisazione che concerne l’interrogatorio da lei sostenuto il 13 febbraio 1999 da cui leggo testualmente: "...era verosimile avesse appreso dal senatore Andreotti che io stavo interessandomi di redigere un progetto. Al riguardo preciso che Geronzi non ebbe alcuna parte...".
Ebbene, professor Capaldo, che cosa intendeva con quel "al riguardo preciso .."?
CAPALDO. Ho letto anch’io il verbale dell’interrogatorio, e non so se lei sappia come vengano effettuate queste verbalizzazioni, onorevole Veneto.
VENETO Gaetano. Lo so benissimo, dal momento che sono stato indagato in quanto ero presidente di una banca.
Le ho posto questa domanda perché, mentre lei in questa dichiarazione è molto radicale nell’escludere che il dottor Geronzi abbia avuto parte in questa vicenda, nella richiesta di rinvio a giudizio si parla invece di concorso del dottor Geronzi con il presidente Capaldo.
Inoltre lei, nello stesso verbale, ha affermato che: "...può essere accaduto che abbia incaricato il dottor Geronzi, per mia assenza o per altro motivo, di riferire all’avvocato Casella qualche mio messaggio o viceversa di raccoglierne.".
Ora, alla luce di queste sue dichiarazioni, lei che era Presidente del Banco di Santo Spirito poi Banca di Roma - il secondo nella lista dei creditori - come e in che senso può escludere un rapporto con il dottor Geronzi che era il direttore generale del Banco di Santo Spirito, ossia di un istituto interessato alla vicenda per centinaia di miliardi?
CAPALDO. La domanda a cui risposi, escludendo qualsiasi ruolo del dottor Geronzi, si riferiva alla progettazione della S.G.R., o meglio, alla fase di formulazione della proposta che avrebbe portato alla creazione di questa struttura, collocabile dal punto di vista temporale nella primavera del 1992 quando, dopo aver formulato questa ipotesi, mi dedicai a verificarla confrontandomi con i creditori.
Evidentemente, in quella fase parlai della questione anche con il dottor Geronzi, che era il direttore generale del Banco di Santo Spirito, come del resto feci con tutti i rappresentanti delle maggiori banche creditrici; in quel periodo incontrai anche il dottor Romiti, considerato che anche la FIAT era nel novero dei creditori della Federconsorzi che avrebbero potuto entrare nella S.G.R..
Effettivamente, l’accostamento, che si fa nel verbale, delle mie dichiarazioni risulta strano, tuttavia mi preme sottolineare che, dopo aver sostenuto un interrogatorio per molte ore, ci fermammo per verbalizzare e, quando mi venne riletto il verbale, per numerose volte interruppi la sua lettura per fare delle puntualizzazioni o per correggere delle inesattezze; però, forse per stanchezza, ad un certo punto rammento che lasciai stare e quindi credo che in quel documento passarono anche delle incongruenze.
VENETO Gaetano. Tuttavia lei, professor Capaldo, ha sottoscritto quel verbale.
CAPALDO. C’è effettivamente una mancanza di consequenzialità che a me appariva, però, un fatto formale, non sostanziale; a me premeva verificare, nel verbale, le questioni più importanti.
Quando affermo che il dottor Geronzi non c’entra nulla non lo dico per difenderlo - del resto non ha bisogno di essere difeso -, ma per rispetto della verità. L’idea fu mia; pertanto se quell’idea è passibile di responsabilità penali queste sono imputabili a me. E’ evidente però che l’attuazione dell’idea passò attraverso l’adesione di tutti i creditori. Il ruolo di Geronzi non fu diverso da quello del direttore generale del Banco di Napoli o da quello del direttore generale della Banca Nazionale del lavoro, ecc. che pure entrarono nella società. L’unica differenza consisteva nel fatto che con lui mi vedevo tutti i giorni e probabilmente avevo discusso della questione Federconsorzi un po' di più.
L’avvocato Casella era stato incaricato da me e dal gruppo dei creditori di condurre a termine il progetto. A tale scopo si incontrava con gli organi della procedura concorsuale e poi riferiva a me circa il contenuto di tali incontri. A volte, essendo io impegnato, chiedevo al dottor Geronzi di sostituirmi, avvertendolo dell’arrivo dell’avvocato Casella che pertanto avrebbe riferito a lui. A volte posso aver chiesto addirittura alla segretaria di prendere i messaggi di Casella, per poi riferirmeli. Solo in questa prospettiva, Geronzi poteva essere latore di qualche messaggio dell’avvocato Casella indirizzato a me. Il concetto di fondo è che il ruolo del dottor Geronzi non è diverso da quello di tutti gli altri direttori generali o amministratori delegati delle aziende diventate socie della S.G.R..
VENETO Gaetano. In tutte le operazioni S.G.R. - e ciò è contenuto anche nell’ultima memoria difensiva inviata alla Procura di Perugia dai suoi legali di fiducia, avvocati Stelio Zaganelli e Francesco Vassalli - lei parla di una disponibilità di 536 miliardi - cito a memoria - a fronte di una debitoria in accordo di circa 300 miliardi. Una volta sottratti i costi di gestione e le spese del personale, pari al 12 per cento circa, la previsione è quella di un pareggio.
Mi pare però che la percentuale del 12 per cento, riferita ai costi ordinari, sia un po’ troppo elevata perché la differenza tra i due importi è pari a 236 miliardi.
CAPALDO. Occorre considerare tutti gli interessi passivi. Ho qui una previsione a finire dei risultati S.G.R. da cui risulta che gli incassi da cespiti residui saranno pari a circa 545 miliardi, i pagamenti per interessi passivi a 51 miliardi, le imposte sul reddito a 75 miliardi, le spese di gestione a 42 miliardi, più altri interessi passivi pari a 81 miliardi per cui, alla fine, l’ammontare complessivo di questi ultimi sarà di 132 miliardi di lire. Sottraendo 300 miliardi all’ammontare degli incassi da cespiti residui (545 miliardi) restano 245 miliardi, di cui 132 sono interessi passivi. Sono cifre dovute al fatto che esistono "interessi arretrati". Infatti, subito dopo l’irrompere sulla scena della Procura di Perugia - ma sul punto i responsabili S.G.R. potranno essere più precisi - ci fu una paralisi nell’attività della società, la quale chiese pertanto alle banche creditrici di sospendere l’addebito degli interessi per riprenderlo quando la situazione si fosse normalizzata. Quindi nel periodo 1996-1997 si sono accumulati 81 miliardi di interessi passivi. Secondo queste previsioni, il saldo dell’intera gestione S.G.R. darebbe un risultato negativo di 10 miliardi; in questo senso ho parlato prima di sostanziale pareggio. I rappresentanti della S.G.R. potranno senz’altro illustrarvi i conti meglio di me.
PASQUINI. Volevo riprendere l'occasione dell’incontro del professor Capaldo con il ministro Goria per sapere dal professore a che titolo incontrò il Ministro, se in veste di amico, di consulente, di banchiere o rappresentante del sistema bancario, o di persona che, all’interno della Federconsorzi, aveva un ruolo importante.
A proposito di quel colloquio, poi, vorrei approfondire il tema della proposta avanzata dal professor Capaldo circa l’opportunità di effettuare un’ispezione, a fronte dell’intenzione del ministro Goria di commissariare la Federconsorzi. Davanti alla proposta di commissariamento del ministro Goria, estremamente preoccupato per la gravità della situazione che ben conosceva e che non poteva non conoscere dal momento che tra i rappresentanti del collegio sindacale della Federconsorzi ce n’era anche uno del Ministero dell’agricoltura, oltre a due sindaci - se non erro - del Ministero del lavoro e del Ministero del tesoro, mi sembra abbastanza improbabile che si suggerisca una ispezione. In primo luogo perché - come ho già detto - il Ministro conosceva senz’altro molto bene la situazione e, in secondo luogo, perché l’idea di un’ispezione appare poco plausibile in risposta all’intenzione di procedere al commissariamento.
Mi chiedo se, invece, il ministro Goria non cercasse di sondare l’atteggiamento del sistema bancario che, dal momento del commissariamento in poi, sarebbe stato quello che tutti conosciamo, cioè un atteggiamento estremamente negativo.
Legata a questa domanda ve ne è un’altra. Esaminando la questione da diversi punti di vista mi sembra che potenzialmente l’operazione S.G.R. avrebbe potuto benissimo essere gestita direttamente dalla stessa Federconsorzi. C’era un problema di credibilità del gruppo dirigente, di capacità di affrontare una ristrutturazione alquanto traumatica, ma tutto questo - a mio avviso - avrebbe potuto essere gestito dalla stessa Federconsorzi, senza mettere in discussione la continuità aziendale o quanto meno mettendola in discussione in termini diversi, attraverso un processo di ristrutturazione finalizzato al risanamento dell’azienda.
CAPALDO. Lei mi chiede a che titolo incontrai il ministro Goria. Non avevo un titolo particolare. Fu lui a telefonarmi. Lo conoscevo perché, era stato a lungo Ministro del tesoro e avevo avuto occasione di incontrarlo, ma si trattava di un rapporto non particolarmente stretto. Lui mi chiese di incontrarlo perché evidentemente, qualcuno gli aveva detto che conoscevo la situazione della Federconsorzi. Lei deve aver presente che quando ci incontrammo Goria era Ministro da tre o quattro giorni e non so se sapesse già tutto del suo Ministero e della Federconsorzi. Mi disse di essere molto preoccupato per la situazione della Federconsorzi ed io confermai le sue preoccupazioni, facendogli però presente che, in fondo, era Ministro da pochi giorni. Gli suggerii di disporre un'ispezione, se proprio aveva bisogno di tempo per esaminare e studiare una soluzione o un piano diverso che non fosse il commissariamento e se non voleva dare l’impressione di non fare nulla. Così facendo, infatti, avrebbe dimostrato di essersi preoccupato della situazione e, in ogni caso, avrebbe acquisito delle indicazioni utili. Il mio era un suggerimento, ed in questo senso ne ho parlato, senza pensare che l’ispezione potesse essere una soluzione ad un problema così grave; si trattava, ripeto, di un suggerimento fatto in un contesto preciso. Non ho avuto l'impressione che egli mi abbia ascoltato per sondare l'interesse da parte del mondo bancario; in questo senso avrebbe potuto parlare con il Presidente dell’ABI, che credo conoscesse molto meglio di quanto non conoscesse me, ed esplorare con lui una soluzione di quel tipo. Non ho avuto l’impressione che egli mi sentisse come presidente di una banca. Ero presidente di una banca, ma mai partecipe della gestione quotidiana del sistema bancario; credo quindi che non fossi la persona più indicata per fare un sondaggio sulla disponibilità del sistema bancario.
Lei poi ha detto che l’operazione fatta dalla S.G.R. poteva essere fatta direttamente dalla Federconsorzi. Tutto si poteva fare in modo diverso da come è stato fatto e la procedura certamente avrebbe potuto prendere un’altra piega. Io però entro in questa vicenda al momento del concordato preventivo, quando l’unica cosa da fare era vendere i beni per pagare i debiti. Anche in base all’esperienza bancaria e professionale che ho maturato posso dire che, quando un’operazione di queste dimensioni si incanala in una procedura di tipo giudiziario, i risultati sono deludenti, non per colpa di qualcuno, ma per colpa della procedura in sé.
Se lei mi dice che tecnicamente si sarebbero potute seguire altre strade le rispondo che, certamente, tutta la vicenda avrebbe potuto prendere una piega diversa fin dall’inizio.
PASQUINI. La seconda domanda è questa. Mi ha colpito molto l’audizione in Commissione del Procuratore di Perugia quando ha affermato che ai creditori chirografari è stato assicurato il pagamento del minimo garantito dal concordato preventivo, mentre le banche creditrici, che hanno fatto parte della cordata S.G.R., hanno recuperato una percentuale del proprio credito complessivo che va dal 145 al 200 per cento dei loro crediti. Ora, a fronte di queste cifre abbastanza eclatanti, lei sostiene, innanzitutto, che la proposta S.G.R. era aperta a tutti e chiunque poteva farsi avanti. Nutro qualche dubbio sul fatto che qualche creditore chieda di entrare in una cordata progettata da un gruppo di banche con le quali magari è impegnato finanziariamente, andando così "a rompere le uova nel paniere". Anche se ci fosse la prospettiva di avere dei vantaggi entrando a far parte di quella cordata, non ci si entrerebbe per motivi di opportunità, mi sembra un fatto abbastanza ovvio. Quindi anche se l'apertura potenzialmente esisteva, si sa che questo genere di cose non trova poi riscontro nella realtà.
Inoltre, vorrei continuare il discorso riconoscendo che, nell’ambito di questa proposta e della liquidazione che otterranno le banche a fronte dei loro crediti, vi è il problema del rischio dell’operazione e dell'esborso finanziario della stessa. Fermo restando che il rischio dell’operazione, come lei ha ripetutamente sottolineato, è di 2.150 miliardi, mi chiedo quale sia il rischio quando i beni sono già stati in parte venduti ed hanno dato origine ai flussi finanziari. Negli atti della Procura di Perugia si da atto che, al momento della firma dell’atto quadro, c’erano già in cassa 900 miliardi che corrispondono alla prima rata ed erano già stati posti in essere contratti e impegni che avrebbero garantito anche la seconda rata. Quindi, in sostanza, la S.G.R. assume un impegno finanziario ed un rischio imprenditoriale corrispondente soltanto all’ultima rata, pari a circa 800 miliardi.
Le chiedo, allora, se quegli incassi delle vendite nel frattempo intervenute si sono stati realizzati a partire dal momento in cui è stata presentata la proposta S.G.R. e firmato l'atto quadro, oppure devono essere riferiti ad un momento precedente alla proposta ed alla firma.
CAPALDO. Intanto devo precisare che i soci della S.G.R. avrebbero potuto, in astratto, realizzare una percentuale così alta dei loro crediti complessivi; ma non l'hanno assolutamente realizzata. Sia chiaro che i calcoli da lei citati si basano sull’assunto che i crediti verso lo Stato valgano 1.100 miliardi e che, di qui a domani, vengano incassati integralmente; si basa, inoltre, sull’assunto che i crediti verso consorzi agrari in liquidazione coatta amministrativa diano luogo ad incassi di centinaia e centinaia di miliardi; assunti questi assolutamente privi di ogni plausibilità. Una cosa è certa e cioè che, fino ad oggi, i soci della S.G.R. non hanno avuto alcunché e realisticamente non lo avranno; anzi la società ha avuto delle perdite.
Voglio subito sgombrare il campo dagli equivoci relativamente al famoso credito di 1.100 miliardi che continua ad incidere su tutto il ragionamento. Mi risulta che questo credito non sia più nella titolarità della S.G.R. in quanto, a seguito di una transazione con la Fedit, è stato ritrasferito alla Federconsorzi. Il Consiglio di amministrazione S.G.R. continua a ritenere – ed io aggiungo sommessamente, a ragione – che da quel credito c’è ben poco da ricavare, tanto che lo ha restituito alla Fedit nel quadro di una transazione dell’ordine di qualche decina di miliardi. Questo è quanto. Quindi oggi questo credito di 1066 miliardi non è più della S.G.R. perché lo ha restituito. Se anche lo Stato pagasse, tale credito non verrebbe comunque più incassato dalla S.G.R. che, sapendolo privo di apprezzabile valore, ha preferito - come ho già detto - utilizzarlo nel quadro di una transazione di qualche decina di miliardi. Questi fatti non sono materia opinabile ma oggettiva. Invece, secondo quanto asserito dal magistrato, la somma di 1.066 miliardi rappresenterebbe denaro contante per i soci della S.G.R..
Riguardo poi alla dichiarazione del senatore Pasquini - secondo cui anche se è vero che nella società potevano entrare tutti, essendo ….. uomini di mondo sappiamo che comunque i piccoli creditori non vanno mai a rompere le uova nel paniere delle banche - debbo dire che non sono affatto d’accordo. Innanzi tutto, non c’era alcuna ragione perché i promotori dovessero consentire a tutti gli altri creditori di entrare in società anche un anno dopo la costituzione della S.G.R.: questa scelta sta proprio a dimostrare un aspetto molto importante e cioè il desiderio dei promotori di avere la più vasta partecipazione possibile. In ogni caso - tornando all’esempio del senatore Pasquini - non è stato rotto alcun uovo perché non c’erano né il paniere, né le uova che quello da recuperare era veramente ben poco.
Nella lettera inviata al magistrato di Perugia ho cercato di dimostrare come, in realtà, tutto il problema si incentrasse su due partite: mi riferisco al famoso credito di 1.066 miliardi - che peraltro è uscito dal patrimonio S.G.R. - e alla somma di 300 miliardi che, secondo il magistrato, corrisponderebbe al valore dei crediti verso i consorzi in liquidazione coatta amministrativa, che invece - secondo quanto sostengo in quella lettera - riguardando soggetti ormai praticamente falliti, hanno un valore pari a zero.
In tal senso, ritengo che la tesi contenuta nel documento della Procura, in cui si sostiene, ad esempio, che i creditori che hanno partecipato alla S.G.R. possono ottenere anche il 200 per cento dei crediti, sia una tesi un po’ ad effetto, perché si basa su un presupposto impossibile, considerato che il credito - quand’anche fosse oggetto di riscossione - non è più della S.G.R..
PRESIDENTE. C’è però un altro aspetto da chiarire che riguarda gli immobili che sarebbero stati liquidati nel periodo ancora precedente.
CAPALDO. Vengo subito al punto, signor Presidente. Quando fu concepita l’offerta, nella primavera del 1992, sulla base di un inventario effettuato al 30 novembre 1991, non si sapeva nulla su che cosa fosse stato già realizzato; si era soltanto al corrente dell’esistenza di un compendio di beni desunto dall'inventario - di cui però si ignorava che cosa fosse stato già venduto - e altresì che la Fedital sarebbe stata ceduta per 25 miliardi a fronte di una valutazione di 105 (e quindi, casomai, c'era da allarmarsi). Ribadisco, comunque, che l’offerta venne avanzata sulla base del ricordato inventario di beni e quindi il rischio era di circa 2.150 miliardi.
Quella era l'operazione. Ciò che è accaduto successivamente - nell’arco di tempo che va dal momento in cui venne sottoscritta l’offerta, nel maggio 1992, alla sottoscrizione dell’atto quadro, nell’agosto 1993 (14 mesi dopo) - inclusi i realizzi conseguiti direttamente da Fedit, non ha concorso ad abbassare il prezzo - questo deve essere chiaro - ma solo a creare le condizioni per effettuare un conguaglio, che ovviamente è cosa ben diversa. In ogni caso, tengo a ribadire che si trattava di circostanze assolutamente non conoscibili quando, nella primavera del 1992, venne effettuata l’offerta.
PRESIDENTE. Questo conguaglio poi è stato effettuato in corso d’opera?
CAPALDO. Il meccanismo del conguaglio ha funzionato nel seguente modo: quando all’epoca dell’atto quadro vennero effettuati i conteggi si riscontrarono - se non ricordo male - incassi dell’ordine di circa 600 miliardi. Si constatò pertanto che la prima rata di 335 miliardi non avrebbe dovuto essere pagata e che l’eccedenza andava portata a deconto dell’importo della seconda rata. Nel frattempo, la S.G.R. iniziò le vendite e le somme raccolte furono depositate in un conto corrente e furono utilizzate per il pagamento della seconda rata, che richiese un ulteriore piccolo esborso, mentre il grosso dell'esborso si ebbe con la terza rata; si trattò quindi di un’operazione in parte autoliquidantesi, a cui si fece però fronte sempre con risorse generate dal sistema.
A conferma di quanto detto, torno a ribadire alcuni dati cui ho fatto precedentemente riferimento: l’amministrazione concordataria ha già utilizzato oltre 1.000 miliardi e mi risulta, inoltre, che, almeno fino a qualche giorno fa, fosse in possesso di oltre 1.000 miliardi. Si tratta di oltre 2.000 miliardi che ovviamente sono stati versati dalla S.G.R., in quanto la suddetta amministrazione non ha altre fonti d’entrata. Questa somma, insisto, è stata pagata dalla S.G.R. e conta poco, ai fini del nostro discorso, se provengano dai ricavi delle vendite, dai finanziamenti bancari o da altro. Il dato importante è che comunque il prezzo di 2.150 miliardi è stato pagato ed è impossibile sostenere il contrario.
PASQUINI. Desidero chiedere al professor Capaldo se, tra il momento in cui venne ideata l’operazione e quello in cui si ufficializzò la proposta e quindi venne firmato l’atto quadro, ne esista uno intermedio in cui fu presentato quello che definirei un impegno alla procedura?
CAPALDO. La mia idea di questa operazione è temporalmente collocabile intorno al gennaio del 1992; successivamente la sottoposi ad alcuni rappresentanti dei soggetti creditori che nel complesso la ritennero fattibile. A quel punto si decise di far intervenire l’avvocato Casella che si mise subito al lavoro. Siamo nel febbraio 1992. L’operazione non fu proprio agevole perché non vi era grande entusiasmo da parte dei creditori, il cui atteggiamento era di ritenere che, tutto sommato, "ciò che era perso…. era perso" e non valeva la pena imbarcarsi in un progetto che, nel tentativo di realizzare qualcosa in più, poteva finire con il determinare qualche altra perdita. Comunque, sul finire del mese di maggio del 1992, l’operazione fu varata. E’ in quel momento che viene avanzata la proposta e viene fissato un prezzo. Quindi, la data dell’impegno è il 27 maggio 1992. A partire da quella data la proposta passa nelle mani degli organi della procedura di concordato che la studiano in maniera analitica.
Anche la stampa si impadronì dell’operazione, occupandosene spesso sia in relazione al prezzo che alle sue modalità di attuazione. I sindacati, dal canto loro, espressero un parere favorevole. La proposta quindi fu accolta nel marzo 1993 e a quel punto, nel mese di aprile, fu costituita la società.
PRESIDENTE. Professor Capaldo, mi sembra che lei abbia saltato un passaggio. Su questo punto vorrei essere più preciso per completare la sua risposta. L’avvocato Mario Casella inviò il testo della proposta al commissario giudiziale in data 27 maggio 1992. Il verbale della riunione dei creditori del 14 maggio 1992, che aveva dato luogo alla proposta dell’ABI, fu trasmesso alla Banca d’Italia in pari data, a seguito della richiesta da parte del Banco di Santo Spirito del nulla osta all’operazione. La Banca d’Italia autorizzava l’operazione con nota del 18 giugno 1992. Il concordato preventivo venne omologato con sentenza del 23 luglio 1992, con la quale, fra l’altro, il tribunale esprimeva apprezzamento per la proposta avanzata dall’avvocato Casella. Seguirono poi altre vicende come la costituzione in aprile della società S.G.R..
Sono questi i passaggi fondamentali e le date che il senatore Pasquini voleva che lei evidenziasse.
CAPALDO. Ho omesso di ricordare una data. E’ chiaro però che la proposta, in data 27 maggio 1992, doveva essere subordinata all'approvazione da parte della Banca d’Italia.
Comunque, ai fini di una migliore comprensione dell’intera vicenda, deposito agli atti della Commissione tutta la documentazione in mio possesso, ivi compresa la relazione da me preparata con i relativi allegati.
PRESIDENTE. Colleghi, poiché sono ormai le ore 13,20, propongo di sospendere la seduta e di stabilire, in sede di Ufficio di Presidenza, che sarà convocato per giovedì 22 aprile, alle ore 10, l’individuazione di una nuova seduta nella quale proseguire l’audizione del professor Capaldo.
Ringrazio il professor Pellegrino Capaldo per le informazioni che ci ha fornito e per la disponibilità dimostrata.
Il seguito dell'audizione è pertanto rinviato ad altra seduta.
I lavori terminano alle ore 13,30.